Il giubileo nelle carceri, i cappellani del Triveneto a Venezia: «La speranza illumini i detenuti»
Il referente padovano, don Mariano: «Il problema del fine pena è la difficoltà a trovare casa, facciamo una mappatura». Poi l’arcivescovo di Gorizia ha acceso le lampade giubilari
C'è un momento che segna il ritorno alla vita fuori dalle sbarre, un passaggio che spesso si rivela più duro della detenzione stessa. Il fine pena, quel giorno che dovrebbe segnare l'inizio di una nuova libertà, diventa per molti il momento di una nuova condanna. La società si è costruita sulle sue regole, i suoi confini, la sua percezione del giusto e dell’ingiusto. Ma quando il carcere finisce e il detenuto si ritrova nel mondo “libero”, quanta libertà trova davvero? Perché, fuori dalle mura, non si è più detenuti, ma si è reclusi in una prigione invisibile: la difficoltà di reintegrarsi. Difficoltà che passa, innanzitutto, dal trovare una casa: chi mai affitterebbe la propria a un ex detenuto?
Per questo, durante l’incontro a Roma dei referenti regionali dei cappellani delle carceri, è stato chiesto loro di fare una mappatura delle strutture che accolgono i detenuti una volta finito di scontare la pena. «Un tema scottante, solo con i numeri alla mano possiamo capire come fare per implementare queste abitazioni» ha detto don Mariano Dal Ponte, referente dei cappellani del Triveneto e sacerdote della Casa circondariale di Padova, durante un incontro nel carcere maschile di Venezia, dove questo mercoledì si sono riuniti i cappellani del Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige.
L’inserimento lavorativo
La sfida del carcere si gioca fuori, nelle realtà territoriali, nelle imprese e nelle aziende che avviano percorsi di inserimento lavorativo. Il direttore della Casa circondariale veneziana, Enrico Farina, si dice più che entusiasta delle sinergie strette con enti e associazioni che permettono ai detenuti di immaginarsi un futuro.
«Attualmente abbiamo più offerte che detenuti nelle condizioni di poter essere inseriti» ha spiegato, «per questo credo che Venezia potrebbe diventare uno snodo nel Triveneto: vista la grande quantità di domande, i detenuti delle altre carceri potrebbero usufruire dei progetti di inserimento lavorativo».
Farina si è poi rivolto alle persone ristrette presenti all’incontro: «Non siete diversi da quelli che hanno già avviato un percorso con l’esterno, ciò che conta più dei provvedimenti disciplinari è l’atteggiamento. La libertà arriva quando sarete pronti, vi chiameremo quando sarà il momento, non ci siamo dimenticati di voi» li ha incoraggiati, invitandoli a non perdere la speranza.
L’omelia dell’arcivescovo
E’ stata proprio la speranza e la sua luce in grado di illuminare anche i momenti più bui, il cuore dell’omelia dell’arcivescovo di Gorizia, Monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli.
«La parabola del seminatore ci insegna che la parola di Dio viene offerta a tutti: siamo noi il terreno che deve accoglierla, un terreno che a volte può partire svantaggiato, ma ha le stesse possibilità degli altri. Al tempo stesso, siamo noi anche la parola di Dio» ha detto durante la celebrazione eucaristica nella cappella del carcere, «dobbiamo essere accoglienza e parola per l’altro. E ricordarci che il messaggio di Dio è sempre di speranza, ed è sia dono che responsabilità perché ci deve spronare ad agire» ha aggiunto.
Al termine della messa sono state accese le lampade della speranza, consegnate dal Vaticano ai 17 istituti penitenziari del Triveneto in occasione del Giubileo.
«Una lampada che illumini chi vive nelle tenebre» ha commentato l’arcivescovo, «che porti la speranza a chi è limitato della propria libertà personale e a tutta la nostra comunità, affinché sia libera dai giudizi e dalle condanne».
Il sovraffollamento
Gli istituti penitenziari scoppiano. Il sovraffollamento è alle stelle: nella Casa circondariale di Santa Maria Maggiore ci sono 261 detenuti al posto di 159, nel carcere minorile di Treviso si contano 23 ragazzi ma soli 12 posti letto, «tant’è che delle brandine sono state tolte dal Cpia, e alcuni dormono sui materassi per terra. Una situazione drammatica» ha commentato il cappellano don Otello Bisetto, «ci sono sempre più reati e poche misure alternative, non bastano le idee, se poi mancano risorse umane e finanziarie non si va da nessuna parte. Le comunità spesso rifiutano i casi di minori con problemi psichiatrici o droga e, di conseguenza, non ci sono alternative».
A Verona la situazione è ancora più allarmante e la Casa circondariale di Montorio conta 600 detenuti a fronte di 275 posti. «Avendo il reparto di osservazione psichiatrica, abbiamo tanti casi di detenuti con problemi di salute mentale, e questo spesso rende più complicata la gestione» fa presente fra’ Paolo Crivelli, cappellano della struttura.
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