Le crisi parallele del Movimento 5 Stelle e della Lega
La troppa demagogia rischia di ritorcersi contro chi la promuove, ma al costo di andare comunque verso una demagogia ancora più irresponsabile, con posizioni che non possono confrontarsi tra loro

Due partiti italiani, in questi giorni, sono attraversati da venti di divisione, se non di vera e propria scissione. Nel Movimento Cinque Stelle la crisi è stata aperta dal fondatore poi garante e consulente (lautamente pagato) Beppe Grillo: che al progetto di trasformare l’intera fisionomia del partito contrappone la difesa, oltre che del nome e del simbolo, della regola del “due mandati e basta”, da cui conseguirebbe la fine della vita politica di molti dirigenti attuali. Nella Lega “per Salvini premier” (si chiama ancora così) il generale Vannacci, sulla cui candidatura alle europee lo stesso Salvini tanto aveva puntato per raccogliere voti, non nasconde di pensare a una propria formazione schierata su posizioni sfrontatamente estreme in tutti i campi. Per Vannacci capo.
Certo, i partiti che sono attraversati da queste crisi sembrano presentare poche somiglianze: uno all’opposizione l’altro saldamente al governo, uno inserito al parlamento europeo nel gruppo dell’estrema sinistra l’altro nel gruppo dell’estrema destra. Eppure c’è qualcosa in comune. In entrambi i casi, formazioni politiche che puntano per raccogliere consensi soprattutto sulla rabbia e sul risentimento rischiano di essere “scavalcate” da qualcuno che, dal loro stesso interno, mira a ottenere voti con parole d’ordine anche più aggressive.
Si potrà dire che la Lega ha in realtà una sua solida base geografica e di potere, ma la scelta dell’attuale leader è da tempo di scommettere soprattutto su una politica carica di pregiudizi abbandonando o quasi l’identità “nordista” che alle origini ne costituiva l’anima: così è stato lui, come l’apprendista stregone, a fabbricare il personaggio Vannacci che ora lo minaccia.
Gli stessi 5 stelle vengono da un lungo periodo di governo, ma la loro arma principale, una volta persa la capacità di distribuire denaro tra “redditi” e superbonus, resta il fare appello a «quelli che non ci stanno», e Grillo in questo si sente imbattibile. Un partito da sempre legato a nomi più che a idee si divide ora su nomi e attacchi reciproci.
Così emerge più di prima il tallone d’Achille dei partiti che puntano troppo, o tutto, sulla demagogia: è difficile impedire l’emergere di qualcuno ancora più demagogico. Grillo fa leva sulla nostalgia delle parolacce, del mandare tutti e tutto al diavolo per cercare di portarsi via almeno una parte del movimento. Vannacci contrappone al razzismo appena velato della Lega quello svergognato del «solo i bianchi sono italiani».
Anche negli Usa si è profilata per un momento una possibilità di frattura simile: la candidatura no vax e complottista di Robert Kennedy jr., che sarebbe stata una minaccia per l’ex presidente se Trump non andasse continuamente a destra di se stesso, per così dire, spinto dal suo delirio narcisistico oltre che demagogico che non lascia spazi. Così Kennedy ora ha aderito alla sua campagna invece di promuoverne una propria.
Questa dinamica è certo favorita dall’attuale sistema comunicativo, dal ruolo dei social ma anche da molta televisione. Però alla base di tutto c’è il fatto che le moderne democrazie stanno perdendo la capacità di confrontarsi sugli interessi e i progetti, e per inseguire i voti hanno solo il personalismo delle facce, e gli slogan gridati. Ora la troppa demagogia rischia di ritorcersi contro chi la promuove, ma al costo di andare comunque verso una demagogia ancora più irresponsabile, con posizioni che non possono confrontarsi tra loro. Verso democrazie ancora più fragili.
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