Deportato a Buchenwald per aver curato e aiutato gli avieri americani: la storia di Dino Burelli

Ha raccontato agli studenti fino a quando è mancato, a 87 anni, nel 2008. Oggi a raccontare la sua storia è il figlio Claudio Burelli, anche lui medico

Cristian Rigo
Claudio Burelli con suo padre Dino nel 2007 a Langenstein- Zwieberge
Claudio Burelli con suo padre Dino nel 2007 a Langenstein- Zwieberge

A tradirlo è stata la decisione di curare e poi aiutare a fuggire cinque aviatori americani rimasti feriti dopo essersi lanciati con il paracadute da un aereo abbattuto nei pressi di Martignacco.

Il medico Dino Burelli, che all’epoca faceva il tirocinio all’ospedale di San Daniele, ma in realtà aveva sposato la causa della Resistenza schierandosi con i partigiani della Osoppo, fu così scoperto e deportato a Buchenwald da cui riuscì a tornare dopo essere stato liberato dagli alleati. Ha scritto la sua storia nel libro “Mamma sto bene... non mi sono fatto niente”, che ha raccontato agli studenti fino a quando è mancato, a 87 anni, nel 2008. Oggi a raccontare la sua storia è il figlio Claudio Burelli, anche lui medico.

Qual è il messaggio che suo padre, e oggi lei attraverso la sua storia, cercate di trasmettere?

«Mio padre concludeva sempre i suoi racconti con l’esortazione a evitare le guerre. Sottolineava l’importanza di rispettare sempre l’opinione degli altri e di non voler imporre la propria nel corso di una discussione. Insomma ricordava i principi su cui si è basata la Resistenza e ci teneva a ribadire l’importanza della libertà precisando che non va mai data per scontata».

Quanti anni aveva quando fu catturato dai tedeschi?

«È nato a Madrisio di Fagagna il 12 dicembre del 1920 e fu arrestato nell’agosto del 1944 quindi aveva 23 anni. Fu portato prima nel carcere di Udine e poi condotto in Germania su un treno-merci. Finì nel campo di lavoro di Buchenwald, poi venne trasferito in un campo minore a Langenstein-Zwieberge nei pressi di Berlino».

Quando venne liberato?

«Il 12 aprile del 1945. Riuscì a tornare a casa nel mese di giugno, stremato ma vivo dopo un viaggio di fortuna».

È vero che per anni non parlò con nessuno dell’esperienza vissuta nel campo di concentramento?

«È vero sì. Non disse nulla. Mai una parola fino a una sera verso la fine degli anni ’70».

Cosa accadde?

«In realtà niente di particolare. Eravamo a casa, insieme ad alcuni amici, ci aveva chiesto di aiutarlo a organizzare un campeggio di due giorni per ritrovarsi con gli amici, noi gli dicemmo di no e lui ci rimase male e si adombrò. Così un mio amico gli disse: avremo pure la nostra libertà e lì venne fuori tutto. Ci raccontò ogni cosa. Così capimmo da dove veniva la nostra libertà e che prezzo era stato pagato da migliaia di persone, molte delle quali morirono in Germania».

Da quella sera poi suo padre non si è più fermato.

«No, da quella sera è cambiato completamente il modo in cui ha affrontato la sua esperienza. Si è iscritto all’Aned, l’Associazione nazionale degli ex deportati nei campi nazisti, e insieme ad alcuni amici ex deportati ha fondato un’associazione per sostenere un piccolo memoriale sul campo dove erano stati prigionieri. Prima ancora della caduta del muro è tornato a visitare il campo e dopo il 1989 ha iniziato ad andare ogni anno alla commemorazione. Io l’ho sempre seguito e continuo ad andarci due volte l’anno».

Ha trovato la forza anche per scrivere un libro.

«Sì e poi è andato nelle scuole a incontrare gli studenti».

Il titolo del libro è la frase che continuava a ripetere alla madre quando riuscì a tornare a casa?

«Esatto, sì. Nessuno aveva sua notizie da mesi tanto che lo avevano dato per morto e quando arrivò a Madrisio quasi scusandosi continuava e ripetere “mamma, sto bene, non mi sono fatto niente”».

Cosa raccontava della sua esperienza agli studenti?

«Le privazioni, la fame, il lavoro coatto, le malatti e i morti, ma ha sempre evitato dettagli macabri. La maggior sofferenza per lui fu essere privato della sua identità: dal momento in cui lo marchiarono non fu più Dino Burelli, ma solo il numero 21318».

Perché fu arrestato?

«Aiutò degli avieri americani. Li curò, li nascose e li aiutò a fuggire. Non fu difficile per i tedeschi risalire a lui».

Quando decise di schierarsi con i partigiani?

«Dopo il discorso di apertura dell’anno accademico del rettore di Padova, Concetto Marchesi. Rimase a lavorare all’ospedale di San Daniele, ma procurava viveri per chi si nascondeva in montagna e di notte curava i partigiani che a volte nascondeva in casa».

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto