Vent’anni senza Enrico Ameri, la voce del calcio minuto per minuto
Quando il calcio “si sentiva” e non si vedeva. Ameri morì il 7 aprile 2004. Il ricordo di come è nata la mitica radiocronaca con Padovan, Pizzul e Cucchi

Era grande, era grossa, era marrone. Prima di diventare un oggetto di modernariato, la radio aveva una sua sovranità domestica.
Era arrivata prima della televisione e anche quando il televisore prese il possesso di un angolo del salotto o della cucina, la radio rappresentava l’elemento che entrava in contatto con l’ascolto più velocemente. Al contrario della tv, la radio c’era sempre. Sia al mattino – dalle prime ore dell’alba – fino a notte alta, per i rapaci della vita.
La radio aveva un suo andamento regolare, piano, a volte monocorde. Solo alla domenica cambiava passo, ritmo, frequenza.
La trasmissione sportiva si chiamava “Tutto il calcio minuto per minuto” e ai microfoni non c’erano radiocronisti, ma aedi di un calcio immaginifico e mitologico, figure che, nella trepida attesa di un gol o nella strenua difesa della porta della propria squadra, noi tutti ingigantivamo o storpiavamo.
Ovviamente non era calcio da vedere. Solo respiri, fiati e urla che provenivano dall’ingombrante apparecchio casalingo o dalla sua estensione più pratica, la radio a transistor, altrimenti detta radiolina per la comodità con cui si poteva portare in giro. La narrazione era vibrante e sincopata, scandita dal marziale Roberto Bortoluzzi, l’uomo dello studio centrale.
Da lì si passava ai collegamenti e alle voci. La prima, la più baritonale e calda, la più imperiosa e definitiva era quella di Enrico Ameri, altrimenti detto il “campo principale”, fedele testimone delle partite più importanti del campionato e, quando giocava, della nazionale italiana. Era lui quello che parlava di più, era lui che spesso raccontava i gol in diretta.
Ma quando su uno degli altri campi, accadeva qualcosa di speciale, il collega che interrompeva non poteva esimersi dall’usare una frase diventata il simbolo dell’irruzione vocalistica in diretta, una sorta di breaking news ante litteram:
Scusa Ameri, è passato in vantaggio il Cagliari...
Ancor oggi, quando in un dibattito, si vuole garbatamente intervenire su chi sta parlando, i frequentatori del calcio radiofonico, declamano un nostalgico: «Scusa Ameri».
Ameri d’altri tempi, quando i tempi erano già i ruggenti Anni Settanta. Ameri che mal sopporta Ciotti – la seconda voce più incline al colore e a una cronaca rapsodica – quando gli toglie la linea precipitosamente, come peraltro impone il copione.
Ameri che ama la buona tavola e la birra. Ameri ironico ed empatico che dice: «Hai una bella voce, avresti potuto fare il radiocronista». Scusa Enrico, se non ti abbiamo creduto.

È incredibile come il trascorrere inesorabile del tempo ci regali puntuali incrementi di guai collegati all’anagrafe ma, al contempo, non intacchi minimamente il ricordo dei grandi che ci hanno preceduto nel fatale trapasso da questa ad altra vita.
Diventa per noi momentanei superstiti una sorta di dovere celebrarli e, in quest’ottica, non c’è dubbio che Enrico Ameri ci abbia lasciato addolorati ma, a dispetto del tempo che vola e sembra spazzar via tutto, colmi di rimpianti e di gratitudine per quanto ha saputo fare.
Personaggio non facile, coerente con i suoi principi in modo magari discutibile, ebbe esperienze giovanili particolari, che lo portarono, nel fatale terribile 1943, ad arruolarsi nella neocostituita Repubblica di Salò, retaggio dell’educazione familiare visto che il padre era stato funzionario di polizia.
Arrivati a Roma, gli alleati imprigionarono coloro che si erano schierati con la RSI e ad Ameri capitò di passare un certo periodo di detenzione assieme a Raimondo Vianello, Walter Chiari, Enrico Maria Salerno ed Ezra Pound. Furono liberati anche per i buoni uffici, pare, del Vaticano.
Mi preme rammentare i molti momenti vissuti assieme perché inviati sul medesimo evento sportivo, non necessariamente calcistico. Confesso di aver nutrito sempre una specie di rispetto particolare per il radiocronista di cui mi ero bevuto le parole quando non pensavo di diventare, per vicende poco meno che casuali, suo collega.
Con me fu sempre più che cordiale, mi prese in simpatia perché sapeva che ero gradito al suo amico Paolo Valenti e, soprattutto, che avevo frequentato il mondo degli oratori, fin dalla giovane età in Friuli e più tardi anche nel Milanese.
Era particolarmente legato al culto mariano e, negli ultimi anni, quando ci capitava di avere un po’ di tempo a disposizione ed eravamo in zone propizie, mi trascinava in visite forzate in santuari locali, dove esibiva una partecipazione del tutto particolare, talora dandomi qualche occhiata di traverso quando gli sembrava che io fossi un po’ troppo tiepido di fronte a manifestazioni di partecipazione popolare eccessive.
Va da sé che la grandezza di Ameri va misurata sulla sua straordinaria capacità di catturare il plauso e il consenso popolari con il ritmo incalzante ma mai fastidioso del suo lessico, la tempestività degli interventi, il dualismo famoso e ancor oggi celebrato con Sandro Ciotti, altro grande clamorosamente diverso per atteggiamenti, cultura calcistica, sensibilità morale.
I due erano entrambi posseduti dal demone del gioco. Ciotti perché voleva sempre e comunque vincere, Ameri perché voleva sistematicamente sfidare Ciotti, con esiti il più delle volte negativi. Con Enrico era piacevole intrattenersi anche in allegra brigata, amava mangiar bene e non rifiutava un bicchiere di vino, anche all’estero alla perenne caccia di ristoranti italiani e spesso in polemica con me che preferivo il rischio di avventurarmi in specialità culinarie locali, per misteriose che fossero. Quanto ci manchi ancora, caro Enrico.
Salutaci lassù i colleghi tutti, in particolare Bortoluzzi, gran signore capace di tenere a bada te e il ringhioso Ciotti, ma anche tutti gli altri che hanno ben meritato in mamma radio.

«Se dovesse capitarti di non aver nulla da raccontare, aggrappati al filo d’erba mosso dal vento sul campo e racconta quello». È stato il suo primo insegnamento.
Enrico era “la voce” per noi “nativi radiofonici”, per quella generazione venuta alla luce quando la tv non c’era ancora. La domenica era dominata dal suo ritmo portentoso, dai suoi toni melodiosi, dalla sua capacità di trascinarci nello stadio insieme a lui, accanto a lui.
“Rete!”. Due sillabe rotonde, nitide, musicali. Mai urlate davvero, ma cariche di emozione. L’erede naturale del capostipite, Nicolò Carosio. Suo allievo e già seconda voce nel primo numero di “Tutto il calcio minuto per minuto”: Carosio a Milano per Milan-Juventus, Ameri a Bologna per Bologna-Napoli. Era il 10 gennaio del 1960.
E, rispetto al maestro, già proiettato nel futuro che pretendeva ritmi più serrati e meno enfasi declamatoria. Enrico Ameri è nato moderno radiocronista.
Da ascoltatore innamorato che tentava di imitarlo in radiocronache inventate come gioco, a giovane che entrava in punta di piedi in quella mitica redazione, il Pool Sportivo, diretta da Guglielmo Moretti, l’inventore di “Tutto il Calcio”. Roba da far tremare i polsi leggere quei nomi sulla targhetta affissa accanto alla porta: Ameri, Ciotti, Ferretti, Luzzi…
Al loro cospetto la prima regola era il silenzio. Prima ascoltare. Succedeva anche la domenica quando, per l’apprendistato, affiancavo Ameri sui campi di calcio. Anche in quel caso, in silenzio, per ascoltare lui che, inforcate le cuffie, iniziava il suo racconto. Il mio compito: rubare.
Rubare pezzi del mestiere. Ma anche segnare il numero dei calci d’angolo che appartenevano di diritto, all’epoca, alle note di cronaca che nutrivano il commento finale. Al momento opportuno passavo il mio foglietto di carta dove in bella scrittura avevo annotato i numeri. Con il terrore di aver commesso un errore, con la paura di aver fatto sbagliare Enrico Ameri. Se è avvenuto non se n’è accorto mai nessuno. Nemmeno Enrico.
Le domeniche con lui erano scandite da orari teutonici. Ore 9.30 colazione, ore 10,30 Santa Messa (lui credente, io ateo ma incapace di dire “no”), alle 11,30 il pranzo a base di riso in bianco mantecato al parmigiano. E poi lo stadio, per primi, quando gli spalti erano vuoti e silenziosi, per una partita a scopa con il barman della Tribuna Stampa.
Detestava il rischio di arrivare tardi, di essere bloccato in un ingorgo, di essere riconosciuto da un tifoso. Un narratore. Era questo Enrico Ameri. Un narratore di storie in diretta, un narratore di azioni di gioco. Attento alle parole. Talmente attento da confessarmi un giorno che, da quando Maradona era arrivato al Napoli, si stava interrogando su quali fossero le parole migliori per raccontarlo. Quelle usate fino a quel momento non gli sembravano adatte a descrivere al meglio il fuoriclasse argentino.
Il 7 aprile del 2004 ho rischiato di tradire il suo primo insegnamento. Ero al microfono per raccontare la gara di Champions tra Deportivo La Coruña e Milan. E il Milan era sotto quando fui interrotto dallo studio centrale che diffuse la notizia della sua morte. Ho rischiato di non ritrovare le parole dopo quell’annuncio. Credo non me lo avrebbe perdonato. Poi sono uscite. Perché, come diceva Enrico, noi esistiamo perché esistono gli ascoltatori.
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