L’ora in cui non sapevamo nulla l’uno dell’altro

Covid, agosto e il tempo dell'empatia. Ma lo sapevate che la parola movida è nata in Spagna, negli anni ’80 del Novecento, per significare il clima sociale e culturale tornato vivace dopo la fine del regime franchista. Ma pensa. Mi sa che ci siamo persi il “culturale”, Come nei traslochi. Metti via una cosa, per portarla altrove ma la perdi, nel viaggio, succede

Agosto, Genova. Piazza Colombo. Una fontana bianca, bella. Una lapide in pietra, sulla facciata di un palazzo, ricorda i partigiani caduti per liberare la città.

Un cameriere con il volto coperto parzialmente da una mascherina e un vassoio. Si avvicina a un tavolo di ragazzi. Sono dieci, tutti giovani, tutti maschi, a volto scoperto. Seduti vicini. Ridono, parlano di scuola. Ordinano da bere. Aperitivi e patatine. La mascherina sul braccio, o al polso, come una bandierina di libertà, un orologio di carta che segna il tempo. Tic, tac, tic, tac.

Due ragazzi di colore. Una ha delle ciabatte di pelo rosa, le treccine rosa, i pantaloni corti. L’altro le scatta delle fotografie. Un uomo anziano si appoggia al bastone da passeggio. Chiacchiera con un altro uomo, anziano, in un genovese stretto, cantilenante, bello. Ci sono trenta gradi. La mascherina la indossa solo il cameriere, che suda e si asciuga il sudore. Gli altri no. Odio l’estate canta Bruno Martino nell’aria del tardo pomeriggio.

Il ballo e le balle sul ballo nelle discoteche. I titoli, tutti uguali dei giornali. Ogni città ha la sua movida.

La parola è nata In Spagna, negli anni ’80 del Novecento, per significare il clima sociale e culturale tornato vivace dopo la fine del regime franchista. Ma pensa. Mi sa che ci siamo persi il “culturale”, Come nei traslochi. Metti via una cosa, per portarla altrove ma la perdi, nel viaggio, succede.

E stai a vedere ora che se non balli in milleottocento in un posto in cui a malapena muovi i piedi, non sei libero. Stai a vedere che senza la sbronza colossale da superalcolico e il sudore billionario, ti stanno sottraendo il tuo diritto a fare quello che vuoi, quando vuoi.

E la mamma e il papà e i nonni da proteggere? E il virus portato a casa con le magliette sudate? E i lavoratori in nero del settore? Quanti sono? Chi controlla? E soprattutto a chi interessa tutto questo?

Tic, tac, tic, tac.

Empatia.

Haris Pašović direttore illuminato di Mittelfest, il festival di teatro danza e musica di scena a Cividale da settembre, ha scelto l’empatia come tema conduttore.

C’è così tanto bisogno di empatia ha detto nelle interviste. 

Gli attori poi. Ci sono abituati, si allenano, studiano, lavorano mettendosi al posto di, nei panni di, nella testa di altri.

Pensa che bello indossare per una serata i panni di un medico d’ospedale. Togli la camicia attillata, gli short sfrangiati, il top, i jeans e metti su uno scafandro protettivo. Ti fai otto, dieci ore. Così per prova. Oppure fai il malato. Un tubo in gola…a pancia in giù.  Ah già l’estate. La libertà. Bla, bla, bla.

Tic, tac, tic, tac.  E’ quasi finita l’estate ed è arrivata l’ora.

L’ora in cui non sapevamo nulla l’uno dell’altro.

Il Nobel Peter Hanke, scrive nel 1992 il testo che andrà in scena a Mittelfest, due anni dopo si intitola: l’ora in cui non sapevamo nulla l’uno dell’altro.

È una lunga, lunghissima didascalia. La descrizione di una fitta serie di azioni seguite da un centinaio di figure, interpreti, comparse. Un flusso continuo che attraversava uno spazio vuoto: una piazza.

Come quella di Genova e le mille altre sparse in giro per il mondo. Gente che non sa nulla l’uno degli altri. E non gli importa. Un flusso continuo che attraversa uno spazio vuoto, insensato, egoista e egocentrico. E poi dai, sapere stanca, è noioso.

Roba da sapientoni, soloni, professoroni.

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