La tenacia di una famiglia e l’incapacità della politica
Nel 1939, dopo nove anni di carcere, da Regina Coeli Ernesto Rossi, l’intransigente antifascista in una lettera alla moglie Ada confessava in un inciso che «Nove anni sono molti». Allo stesso modo i genitori di Giulio Regeni, Claudio e Paola possono dire oggi che cinque anni sono molti per vedere affermata la verità di una tragedia troppo grande per essere archiviata nel dolore privato.
Quella che si snoda dal 25 gennaio 2016 è una via crucis con tante stazioni e di cui non si vede ancora la fine, dal rapimento e al ritrovamento del corpo con i segni di una tortura efferata, fino al rinvio a giudizio da parte della Procura di Roma per quattro alti ufficiali dei servizi segreti dell’Egitto.
Certo questa conclusione, in attesa del processo, non sorprende, anzi potremmo dire e avremmo potuto averlo detto immediatamente, che sapevamo che cosa era accaduto.
Il problema è che un assassinio compiuto da elementi di rilievo di uno Stato richiede una spiegazione plausibile e una assunzione di responsabilità chiara. Non solo la punizione dei colpevoli materiali ma soprattutto la condanna dei mandanti politici e istituzionali.
Invece abbiamo assistito a una continua opera di depistaggio, a ricostruzioni false, addirittura a denigrazioni di una persona limpida, impegnata nella ricerca sociale.
Per fortuna la tenacia della famiglia, la bravura dell’avvocata Ballerini e l’impegno di una rete di associazioni di varia ispirazione hanno consentito di rompere le omertà, di denunciare le complicità e di pretendere dal governo italiano reazioni coerenti rispetto alle generiche, se non retoriche, manifestazioni di sdegno o solidarietà.
Purtroppo abbiamo assistito all’ennesima sconfitta della politica, incapace di battere un colpo significativo, ma questo esito può non sorprendere.
Eppure in questo caso era in gioco la credibilità dell’Italia. Uno Stato, di fronte all’omicidio di un suo connazionale non può rimanere inerte e deve mettere in campo tutte le azioni e misure per fare pressioni efficaci per ottenere una collaborazione leale per un obiettivo, la verità e la giustizia, che in questo frangente è una questione pubblica e non solo un interesse privato.
Invece di fronte agli insulti e alle provocazioni del procuratore generale Hamada Al Sawi verso i magistrati italiani le reazioni di singoli esponenti politici lasciano il tempo che trovano; anzi rafforzano la convinzione di Al Sisi che l’Italia sia una tigre di carta.
D’altronde la verifica di un atteggiamento morbido, attraverso la dura replica dei fatti, è venuta dalla conferma del contratto di vendita di armi, in particolare di due navi militari.
Molte azioni si sarebbero potute compiere, oltre al richiamo dell’ambasciatore al Cairo: la sospensione delle relazioni diplomatiche, la rottura di accordi commerciali, la richiesta di condanna e sanzioni all’Onu e da parte dell’Unione europea.
Fantapolitica? Certo se si ritiene che la ragion di stato sia più forte dei diritti umani. Senza dubbio va valorizzata la risoluzione votata dal Parlamento europeo nel dicembre scorso che propone embargo e sanzioni, ma alle parole debbono seguire i fatti.
L’Italia deve fare la sua parte e deve aprire un confronto con Francia e Germania. Se i principi vengono sacrificati sull’altare degli interessi, alla fine perdono credibilità le istituzioni e la democrazia si mostra fragile e impotente.
Bisogna allora arrendersi? No davvero. Il processo penale sarà un banco di prova ineludibile e potrà essere l’occasione per mettere in stato di accusa una dittatura che si fa forte di una posizione geopolitica strategica.
Ognuno può fare qualcosa di significativo, come ha dimostrato Corrado Augias restituendo la Legion d’honneur. Soprattutto manifestando solidarietà ai genitori, solidi come querce e coltivando la memoria di un figlio del migliore Friuli. —
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