La testimone: «Gli 007 egiziani chiesero la copia del passaporto di Giulio Regeni»

Da dicembre 2015 la ragnatela degli apparati intorno a Regeni. La rivelazione della “teste Beta”, coinquilina del ricercatore

Marco Maffettone
Una delle fiaccolate organizzate da Amnesty per chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni
Una delle fiaccolate organizzate da Amnesty per chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni

La ragnatela che gli apparati egiziani hanno tessuto intorno a Giulio Regeni già a metà dicembre del 2015, alcune settimane prima del sequestro e del tragico epilogo, aveva mostrato dei segnali. La conferma è arrivata dalla testimonianza della coinquilina del ricercatore italiano al Cairo, sentita in forma protetta per ragioni di sicurezza nel processo a quattro 007: il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif.

Un presunto appartenente ai servizi segreti egiziani, intorno al 15 dicembre di 9 anni fa, si recò nell’abitazione di Regeni e chiese al suo coinquilino, un avvocato egiziano, copia del suo passaporto. Il “teste Beta”, che all’epoca dei fatti divideva l’appartamento con Giulio e Mohamed El Sayed, ha raccontato che l’avvocato gli riferì di quanto avvenuto quel giorno. «A casa nostra si presentò la polizia e chiese copia del documento di Giulio. El Sayed era convinto che questo controllo era stato fatto dalla National Security, il servizio segreto egiziano».

La testimone, che insegnava tedesco in una scuola privata della capitale egiziana, non era presente in casa quella mattina. «El Sayed era scosso, impaurito: era convinto che fossero i servizi anche se usarono come scusa una sorta di schedatura di tutti gli stranieri presenti in città. In Egitto c’è una sorta di paranoia tra i cittadini per queste dinamiche, temono l’autorità».

In base a quanto riferito dalla teste, El Sayed «si scambiò il numero di telefono con l’agente dei servizi e non raccontò della visita a Giulio. Gli disse solo che gli stranieri devono dare documenti e presentarsi alla stazione di polizia. Forse aveva un sospetto che lui aveva fatto qualcosa che non doveva fare». «Dopo la scomparsa di Giulio – ha aggiunto – la polizia è ritornata a casa ma non ci fu un vero e proprio sopralluogo, non portarono via nulla. Io sono stata ascoltata per tre volte dalle autorità egiziane e non so dire se tra le persone che mi interrogarono c’era anche l’ufficiale che bussò alla nostra porta a dicembre».

Da un’analisi dei tabulati telefonici svolta dagli investigatori del Ros, e presente in una informativa depositata nei giorni scorsi, risulterebbero dei contatti telefonici tra il presunto agente dei servizi e il coinquilino di Giulio proprio il 26 gennaio, il giorno successivo alla scomparsa del ricercatore friulano: Regeni, secondo l’impianto accusatorio, venne prelevato ad una stazione della metropolitana del Cairo.

«Ricordo quel 25 gennaio – ha aggiunto la testimone –. Giulio uscì di casa intorno alle 19.30. Mi disse doveva andare ad una festa di compleanno dall’altra parte della città. Non è più rientrato a casa. Con lui avevo un rapporto di amicizia, un buon rapporto. Andavamo a fare jogging e si mangiava insieme».

Per i genitori di Regeni, sempre presenti alle udienze davanti alla Corte d’Assise, «all’udienza di oggi è emersa la ragnatela che è stata tessuta intorno a Giulio anche dalle persone che gli stavano più vicine». Per l’avvocata Alessandra Ballerini il fatto che i testi devono essere ascoltati in modalità protetta, nascosti da un paravento e senza dichiarare le generalità, dimostra che «l’Egitto non è un Paese sicuro» . —

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