L’odissea di un’imprenditrice per una dicitura sui sacchi di pellet: lei rispetta la legge ma per la Dogana non è corretto
Un calvario lungo sei anni per Patrizia Cairola, amministratore della Unionspead, rinviata a giudizio e poi assolta da ogni accusa: «L’indirizzo del distributore, imposto dalla norma, confuso con la provenienza del materiale»
UDINE. Sei anni di calvario per una dicitura, su dei sacchi di pellet, obbligatoria per l’associazione di categoria, ingannevole secondo la Dogana di Gorizia. Quello che sembrava un semplice fraintendimento si è trasformato, per l’imprenditrice isontina Patrizia Cairola – amministratore unico della Unionsped, una delle maggiori società del Nordest specializzata in soluzioni logistiche e di trasporti, oltre che nel commercio di prodotti per il riscaldamento – in un incubo: «Una causa penale, soprattutto per chi non ha mai avuto a che fare con la giustizia, ha un impatto emotivo importante. A questo si aggiungono il danno d’immagine e le spese».
I fatti
Torniamo al 2018, quando alla Dogana di Gorizia arrivano dalla Russia, su alcuni Tir della Unionsped, oltre 20 tonnellate di pellet. Sui sacchi appare una dicitura: “un prodotto UNIONSPED 005 distribuito da Unionsped srl Via Fratelli Rusjan 7 Savogna d’Isonzo (GO) 34070 Italia”.
«La dicitura è richiesta dall’Aiel – spiegano gli avvocati Paolo Erik Liedholm e Giovanni Morgese dello studio legale LCA di Milano, che hanno assistito rispettivamente Cairola e la società –, l’associazione Italiana energie agroforestali, ed è necessaria per ottenere la certificazione di qualità. Specifica l’indirizzo e la sede della società, compreso il Paese di appartenenza».
Quella scritta, però, per la Dogana può indurre il consumatore all’errore; a credere che quel prodotto è italiano e, così, sequestra il carico.
«Contestavano alla Unionsped il reato di “fallace indicazione di provenienza” – continua l’avvocato Liedholm –». «Non ci potevo credere – racconta Patrizia Cairola –: non c’era scritto da nessuna parte che quel pellet era realizzato in Italia, ma solamente l’indirizzo del distributore, come imposto dall’Aiel».
L’odissea giudiziaria
Per questi motivi la società è convinta di poter arrivare al dissequestro con un chiarimento, ma non è così: il procedimento va avanti.
La società deve rietichettare i sacchi per sbloccare la merce e l’amministratrice è rinviata a giudizio. A Cairola non è contestata solamente la responsabilità personale, ma anche quella della società. L’imprenditrice deve difendere se stessa e la sua azienda da una accusa penale, rischiando sanzioni di una certa rilevanza, patrimoniali e interdittive.
Negli anni si succedono cinque udienze; sono sentiti diversi testimoni, tra cui un esperto dell’Aiel, è dimostrata non soltanto l’assenza di contenuti falsi o fuorvianti nella dicitura, ma che quest’ultima era addirittura obbligatoria, in base alle linee guida dettate dall’associazione di categoria ai fini, appunto, della certificazione di qualità.
Nei giorni scorsi il Pubblico ministero ha chiesto l’assoluzione: non c’è reato. Alla fine il Tribunale di Gorizia, accogliendo la richiesta dei difensori, ha riconosciuto l’insussistenza del fatto.
Non è stato facile – conclude Patrizia Cairola –. Oltre all’impatto emotivo, inizialmente ho subito un danno d’immagine importante: eravamo stati contattati da una importante società pubblica che, come da prassi, ha verificato il casellario giudiziario. La lentezza della macchina giudiziaria ha fatto il resto. Complicare la vita agli imprenditori con problemi inesistenti e con oneri finanziari importanti non è positivo per una città che da un punto di vista imprenditoriale non è particolarmente viva.
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