Claudio, Adriana, Tomaso: quei 487 bambini morti nel disastro del Vajont e il rispetto della natura
La terra si è ribellata all’uomo, il bacino artificiale del Vajont, costruito dietro una diga che in quel momento era la più alta del mondo, un capolavoro dell’ingegneria umana edificato nel posto sbagliato, fu invaso da una frana colossale staccatasi dal monte Toc. In pochi attimi scomparvero vite e paesi in quell’immane tragedia.
Claudio aveva 21 giorni, Adriana 2 anni, Tomaso 4, Fernanda 10, Delia 14, Virginia 15... L’elenco è lungo, troppo, per non commuoversi scorrendo i nomi dei bambini che furono spazzati via quella notte. Esattamente 487.
In pochi attimi scomparvero vite e paesi in quell’immane tragedia. «Quell’evento non fu una tragica, inevitabile fatalità, ma drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità», commentò dieci anni fa, in occasione del mezzo secolo dal disastro del Vajont, l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
E se dopo sessant’anni siamo qui a ricordare quella notte, quell’inferno, quell’incubo, quello strappo violento che hanno vissuto migliaia di persone è perché dobbiamo dare memoria a chi non c’è più per gli interessi, per l’avidità, per la totale mancanza di rispetto nei confronti dell’ambiente.
La natura si è ribellata all’uomo, il bacino artificiale del Vajont, costruito dietro una diga che in quel momento era la più alta del mondo, un capolavoro dell’ingegneria umana edificato nel posto sbagliato, fu invaso da una frana colossale staccatasi dal monte Toc.
Scrisse Dino Buzzati, allora inviato del Corriere della Sera: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi».
Una illustrazione semplice che riassume perfettamente quel disastro. Come l’eco che si infrange sulle montagne, così è rimbalzata la notizia di quel dolore sconfinato in tutto il mondo. E quei bambini che oggi sarebbero adulti, padri, madri, nonni avrebbero attraversato sessant’anni italiani, avrebbero visto processi lunghi e tentativi di mistificare la realtà.
Il ricordo deve essere un’occasione di riflessione e uno strumento per le lotte del presente. La nostra storia, o meglio la vita quotidiana degli italiani, continua a subire le conseguenze del dissesto idrogeologico, di uno scriteriato consumo del suolo, di fiumi malamente irreggimentati, di dighe poco sorvegliate, di scarso rispetto per l'ambiente.
Avremo giustizia per questi bambini, per i duemila morti, per le altre vittime di disastri quando l’uomo riuscirà a anteporre nel contesto ambientale gli interessi della collettività.
Il Vajont è stata una catastrofe innaturale, un monito a rispettare la terra che abbiamo in consegna per affidarla a chi verrà dopo di noi, ai Claudio, Adriana, Tomaso, Fernanda, Delia, Virginia del futuro, perché a loro – che c’erano nel 1963 – questa terra non è stato concesso di abitarla.
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