Lo storico Armiero sul disastro del Vajont: «Così quella comunità di ultimi pagò per tutti il prezzo del miracolo economico»
Marco Armiero ha dedicato il suo ultimo saggio alla strage: «Esempio di una società che produce persone e oggetti di scarto»
Vista dalla diga, la parabola evangelica si legge all’incontrario. Il Vajont diventa «la cruna del lago, il sifone di un gigantesco catino nel quale i poveri vengono risucchiati per finire all’inferno, mentre i ricchi si salvano». Marco Armiero, storico dell’ambiente, Icrea Research professor all’Università autonoma di Barcellona e in Italia dirigente di ricerca all’Istituto di studi sul Mediterraneo del Cnr, risponde con questa immagine - la stessa che ha inserito nel suo saggio “La tragedia del Vajont - Ecologia politica di un disastro” appena edito da Einaudi - a chi gli chieda di definire quel 9 ottobre 1963.
Armiero, partiamo da quest’anniversario: lei annota come a lungo ciò che accadde sia stato dimenticato.
Questa storia è diventata fino in fondo patrimonio della nostra comunità nazionale grazie al lavoro non degli storici, ma di due autori di teatro come Marco Paolini e Gabriele Vacis con la loro orazione civile. Ricordo di avere provato, io allora giovane, vedendo quella rappresentazione nel 1997, un grande senso di vergogna per l’assenza di questo disastro dai libri di storia, dalla mia stessa formazione. Il Vajont è stato a lungo cancellato dalla memoria collettiva come fosse una storia in qualche modo troppo ingombrante: sostanzialmente stonava con la narrazione mainstream dell’Italia che, uscita dalla guerra, andava diventando potenza mondiale. Questa era invece la storia di chi ne aveva pagato il prezzo.
Oggi la memoria è stata restituita per intero?
Ricordare è importantissimo, ma parlare di memoria comune è un po’ una forzatura. C’è la memoria delle vittime, dei superstiti, di chi, come fece una giornalista di provincia come Tina Merlin, denunciò quella che era stata la costruzione politica e sociale del Vajont e non fu ascoltato. E poi c’è la memoria di chi vuole raccontare una storia un po’ più semplice: un grande disastro, un grande lutto, un grande pianto. Lo fecero anche celebri penne del giornalismo italiano dell’epoca.
Lei fa notare che dalla diga si vedono bene i limiti della definizione di Antropocene, come è stata chiamata quest’epoca geologica in cui gli umani condizionano l’ambiente terrestre.
Secondo molti studiosi - io sono tra questi - questo Antropocene non convince molto. Non incontriamo la specie umana che tutta, senza distinzioni, plasma il pianeta con la sua arroganza e le sue azioni; incontriamo gruppi, individui, nazioni che abitano il pianeta con un peso diverso, come ci ricorda Papa Francesco: un abitante degli Usa, della Cina o di un Paese in via di sviluppo non hanno la stessa impronta ecologica.
Per questo lei è stato uno dei due studiosi che hanno coniato il termine Wasteocene: l’era degli scarti.
Sì, o meglio l’era delle relazioni di scarto: quella in cui un certo modo di produrre, consumare, organizzare le nostre società produce continuamente delle comunità umane e non umane di scarto, delle discariche socioecologiche dove accumulare ciò che non vogliamo vedere.
Il Vajont ne è stato un esempio?
Certo: al Vajont non ci sono dei generici umani che abusano della natura, bensì c’è l’oppressione di un modo di produrre e consumare che riproduce ineguaglianze, separando chi vale da chi non vale niente. I montanari che sentono la loro montagna grugnire, i loro animali spaventarsi, le loro case fessurarsi, nel disegno di una nazione industrializzata che marcia verso il miracolo economico stanno sicuramente dal lato sbagliato. Sono marginali, gente che conta poco: verranno perfino derisi quando esprimeranno le proprie preccupazioni per la diga.
Il Vajont ci dice anche di persone convinte in buona fede che la diga avrebbe portato prosperità.
È vero, le comunità sono spesso frammentate al loro interno. Ma secondo me è il conflitto che le forma: quella del Vajont si è cementata proprio nel prender coscienza gradualmente del rischio cui si era esposti, in una serie di pratiche e saperi condivisi.
Nelle sfide del cambiamento climatico e della transizione energetica, quale è la lezione che il Vajont ci lascia oggi?
Il Vajont ci dice che la scienza è sempre politica, che il potere conta, che bisogna scegliere da che parte si sta. E che occorre sempre coniugare giustizia sociale e ambientale. Spesso ci fanno credere che esiste una crisi ecologica per la quale dobbiamo cercare risposte techno-fixes, cioè puramente tecnologiche. Io invece dico che la crisi è socio-ecologica: il potere, la tecnica, la scienza ci possono aiutare, ma senza controllo democratico, partecipazione e l’obiettivo di una società più giusta non sarà la transizione “tecnica” che ci salverà. Un esempio: le auto elettriche ci aiuteranno a limitare le emissioni, ma ricordiamoci che le batterie al litio non crescono sugli alberi. Troppo spesso i paradisi di una parte del mondo hanno bisogno di inferni da qualche altra parte. Ma proprio pensando al Vajont oggi possiamo provare a immaginare una storia diversa.
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