Vajont 1963-2023 / Se avesse vinto la gente testarda di montagna

“No semo francesi!” andavano dicendo gli scagnozzi della Sade negli incontri con i cittadini di Erto e Casso e giù, verso Longarone, per convincere tutti che s’ha da fare una diga per intrappolare tutte le acque che vorrebbero scappare a mare, essere libere e non finire in tubazioni rocciose, invasi, sbarramenti
Fulvio Ervas
Una donna mentre percorre la piana devastata dall’onda del Vajont, sullo sfondo camion militari e soccorritori
Una donna mentre percorre la piana devastata dall’onda del Vajont, sullo sfondo camion militari e soccorritori

“No semo francesi!” andavano dicendo gli scagnozzi della Sade negli incontri con i cittadini di Erto e Casso e giù, verso Longarone, per convincere tutti che s’ha da fare una diga per intrappolare tutte le acque che vorrebbero scappare a mare, essere libere e non finire in tubazioni rocciose, invasi, sbarramenti.

“No semo francesi” era lo slogan per dire che sarebbe stata più sicura della diga del Frejus dove ci avevano lavorato operai italiani che bisbigliavano che la diga cascherà, costruita con pessimo cemento e su basamenti di rocce troppo permeabili.

Invece l’Italcementi faceva buon calcestruzzo e lo studio delle rocce era stato da manuale. Uno dei più grandi geologi d’Italia, Giorgio Dal Piaz, garantiva; lui che aveva visto, sin dagli anni ’30, le rocce attorno al Vajont come indistruttibili e l’aveva detto a quel grandissimo ingegnere, Carlo Semenza, un milanese che sin dal ’29 sognava di costruire dighe tra quei monti perché l’acqua fa lavoro e soprattutto corrente elettrica.

“Diga alta fa bon brodo!” si dicevano nelle loro cene gli scagnozzi, intendendo che una grande opera avrebbe dato alti profitti.

La gente, testarda, invece pensava che una diga pur figa può non essere sicura: l’idea era una fissazione di Semenza e Dal Piaz era troppo anziano per capire i sospiri profondi delle rocce! E, a dirla fuori dai denti, a nessuno interessava un fico secco della corrente elettrica per Venezia e per il Veneto. “Fatevela a casa vostra!” anche se gli scagnozzi della Sade provavano ad obiettare che senza quell’energia il miracolo italiano, la corsa all’industrializzazione, sarebbe stata compromessa.

Non si convincevano: combattono quella battaglia con qualche sindaco e con una giornalista rossamalpelo, non fanno partire i cantieri, il monte Toc riflette, la vita scivola. E scivolano anche le montagne, a marzo del ’59 c’è una frana a Pontesei , però a gennaio c’era stata a Longarone la Fiera Internazionale del gelato e avevano festeggiato il blocco della diga con palline di cioccolato e nocciola, mentre a un geologo giovane, Edoardo Semenza figlio proprio del grande ingegnere, qualche dubbio viene sulla stabilità del monte Toc.

Così la gente è sicura d’aver fatto la cosa giusta, anche se ancora non sa che il 2 dicembre del ’59 la famigerata diga del Frejus si romperà davvero e cancellerà più di 400 vite. Quando nelle vallate si diffonde la notizia, c’è sgomento, dolore, ma anche la sensazione d’aver scampato un grave pericolo.

I grandi tecnici ripetono che non sarebbe successo nel Vajont, “no semo francesi”, ma il miracolo italiano oramai decolla, l’energia elettrica ci vuole subito. Sade, visti gli ostacoli, si arrende. Si arrangerà, magari con una centrale termoelettrica, magari dalle parti di Fusina. Il Piave, fiume sacro alla patria, si rilassa. Anche il Toc.

Il 9 ottobre del 1963, decide di scendere a valle. Frana, cade, trascina. E’ la storia della montagna: sollevarsi dal mare per poi sbriciolarsi.

Spaventata dal fracasso, la gente della vallata va ad osservare quel pandemonio: massi, terra, alberi, persino sentieri, hanno trovato nuove coordinate.  I vivi capiscono che sarebbe toccata a loro, i vivi possono vedere. Non Carlo Semenza che era morto il 30 ottobre del 1961 e Giorgio Dal Piaz il 20 aprile del 1962.

Nessuno dei due poté sentire del crollo del monte Toc .

Chissà cosa si sarebbero detti...

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto