Alibegovic, cinquant'anni di vita e basket

UDINE. Oggi, mercoledì 11 gennaio, Teoman Alibegovic spegne 50 candeline. L’ex capitano e coach-manager della Snaidero targata Edi è, infatti, nato l’11 gennaio 1967 a Zenica in Bosnia Erzegovina. «Grazie per ricordarmi che non sono più giovane come una volta e ho capelli bianchi», ci risponde quando gli diciamo il motivo della chiacchierata.
Allora Teo, com’è stato il suo primo mezzo secolo di vita?
«Ho cambiato un sacco di Paesi e culture. Il basket ha rappresentato un pochino più della metà di questi 50 anni. La pallacanestro ha aiutato a distrarmi dalla guerra e a non pensare alle cose brutalmente vere della vita.
Lo sfascio della grande Jugoslavia mi ha obbligato ad affrontare cose nuove. Mai avrei immaginato di diventare un giocatore di basket. Facevo il violinista e atletica leggera. Meglio così, preferisco la spontaneità alla programmazione. È andata bene».
Snaidero che cosa rappresenta per lei?
«Il momento più importante è stato quando ho incontrato per la prima volta Edi Snaidero e, con Giancarlo Sarti che faceva da tramite, mi ha presentato il suo grande progetto. Avevo in mano un contratto col Maccabi Tel Aviv, però per il meglio dei miei tre figli, che erano già “globetrotter” dalla nascita, ho deciso di venire a Udine. Così da consentire loro di avere una vita normale.
Se avessi scelto di andare in Israele avrei portato sicuramente la famiglia con me, ma non avremmo vissuto in tranquillità per molto tempo. Avrei guadagnato di più, ma forse avrei perso il filo conduttore con mia moglie e i miei figli che, invece, reputo sacri. Ho sempre provato a fare del mio meglio senza cattivi pensieri».
L’attualità a Udine è rappresentata dalla Gsa. La segue?
«Certo. Udine ha da sempre possibilità, capacità e potenzialità per rimanere ai vertici, A o A2 cambia poco. I tempi vuoti sono la volontà o non di fare la squadra. Adesso c’è Pedone, ex pallanuotista, che ho portato io nel basket. Ha animo sportivo e spirito grazioso. Sa dove vuole arrivare, basti vedere la grandezza della sua Gsa. Gli auguro il meglio».
I suoi figli stanno cercando di seguire le orme del padre: Mirza a Torino, Amar a New York e Denis a Roma. Come li reputa?
«Con loro parlo di tutto, ma non di pallacanestro anche se insistono. I migliori giocatori sono quelli “orfani”. Ciò che rende orgogliosi me e mia moglie Lejla è che sono ragazzi per bene e dimostrano di rispettare il prossimo, seguendo il nostro insegnamento. Hanno solo il cognome Alibegovic, sono a tutti gli effetti più italiani che slavi».
Mirza si sta ritagliando un ruolo importante.
«È talentuoso, ha presi i geni sia miei che di Lejla. Ho provato a fargli capire che se non facesse troppo l’italiano potrebbe già giocare in Eurolega. Guardate Nicolò Melli: un giorno si è svegliato, rotto i ponti e in Germania è diventato un grande giocatore. In Italia continuamente ti dicono “sei giovane, abbi pazienza”. Ma quale pazienza! Lui ha detto: me ne vado all’estero a diventare un giocatore».
Quindi Alessandro Gentile ha fatto bene ad andarsene?
«Benissimo! Pensate che stesse bene in Italia? Doveva andarsene già un anno e mezzo fa nell’Nba o comunque fuori di casa. Nonostante tutto, la vecchia frase è sempre buona: nessuno è profeta in patria».
Cosa farà Teo da grande?
«Che ne so, ma cercherò di essere sempre riconoscente nei confronti di chi mi ha dato qualcosa».
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