Ancelotti-Gattuso amici contro: ecco gli estremi che si attraggono

Domani sera Carletto ritorna a San Siro da avversario a dieci anni dall’addio in rossonero 

la storia

Gabriele De Stefani

Difficile immaginare due profili più diversi: da una parte Carletto il pacioso, quello che una volta accusavano di essere troppo buono con i giocatori per poter vincere; dall’altra semplicemente Ringhio, un soprannome che è tutto un programma; da una parte un maestro della sdrammatizzazione, dall’altra uno che – Paolo Maldini dixit – «non lo vedrete mai tranquillo». Opposti che si attraggono: Nord e Sud, bonarietà contadina e furia nevrile, sopracciglio alzato e denti digrignati. Eppure i due, Carlo Ancelotti da Reggiolo e Gennaro Ivan Gattuso da Corigliano Calabro, si sono sempre presi alla grande: Carlo considerato un secondo padre da Rino, Rino un imprescindibile per Carlo. Domani, nella notte del ritorno dell’attuale tecnico del Napoli a San Siro come avversario del Milan a dieci anni dall’addio, l’incrocio tra l’allenatore dei trionfi europei e il suo erede sulla panchina rossonera è il più suggestivo. In campo, Gattuso era per Ancelotti quello che Ancelotti era stato per Sacchi: in mezzo a fiumi di talento, Rino correva per tutti ed era l’ultimo che poteva finire in panchina. Puntello che reggeva un’architettura sopraffina ma leggerissima. La magia era nei piedi dei palloni d’oro, ma quel Milan che dominò l’Europa viveva al ritmo del cuore di Ringhio. I più ricordano i gol di Kakà o Shevchenko, ma quando domani sera padre e figlioccio si abbracceranno dentro San Siro nei loro occhi rivedranno Rino che strozza Carlo nella notte di Milan-Ajax facendogli quasi deglutire la sigaretta e rivedranno il faccione del mister stretto nel furore maleducato di Gattuso, che lo shakerava per festeggiare la terza finale in cinque anni, al termine del perfect game contro il Manchester del 2 maggio 2007 (la definizione fu della stampa britannica). E pensare che erano avvolti nel pregiudizio, quando le loro avventure si incrociarono a Milanello.

C’è qualcosa nelle storie di entrambi a spiegare com’è nato un legame così forte. L’uno deve rivedere nell’altro molto di sé: le corse dietro a tutti gli avversari sul campo, certo; e anche la tenacia dei ragazzi di provincia arrivati così in alto che più in alto, calcisticamente, non si può (l’uno sfidando ginocchia fragilissime e l’altro lasciando casa a 12 anni e l’Italia a 18); ma forse, e più nella sostanza, si sono sentiti a vicenda padre e figlioccio perché alla fine a tutti e due non è mai venuto in mente di recitare copioni, in un mondo tanto stereotipato come quello del pallone. E così uno è diventato grande a forza di battute e pane e salame, conquistando la fiducia dei palloni d’oro e dell’ultimo dei tifosi parlando la stessa lingua a tutti; e l’altro ce l’ha fatta ringhiando a destra e a manca. E vedrete che domani quando Carletto e Ringhio si abbracceranno a bordocampo strapperanno l’ennesimo sorriso a tutti: milanisti e napoletani, avversari e agnostici del pallone. Miracolo di chi gioca a viso aperto, in campo e fuori. —

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