Auguri Trap, per tutti l’essenza del calcio

IL RACCONTO
STEFANO TAMBURINI
Quella del Trap è una storia bella, la storia di due piedi ruvidi che hanno saputo essere ferro e piuma, la leggenda dell’animo nobile di un grande allenatore e immenso uomo di calcio. Non sono ottant’anni qualsiasi quelli di Giovanni Trapattoni detto Trap, perché nessuno meglio di lui può di dire di aver accompagnato per mano ogni passaggio del nostro calcio dell’era moderna, prendendo idealmente il testimone da Gipo Viani e Nereo Rocco.
Quella di Giovanni Trapattoni, nato a Cusano Milanino il 17 marzo del 1939, è la storia più bella che il nostro calcio abbia mai saputo scrivere. E non per i successi sul campo (tanti) e le sconfitte (non molte, spesso brucianti), non per i mezzi tecnici ma per quel suo modo di conquistare tutti con il lavoro, gli esempi, la dedizione.
Non c’è nessuno che possa aver attraversato tre mondi così diversi e così rivali come quelli di Milan, Juve e Inter riuscendo ad appartenere a pieno titolo a tutti e tre senza che nessuno possa rimproverargli il resto del cammino. E la spiegazione sta nel fatto di essere prima di tutto il Trap e poi un ex di qualcosa. Il segreto? Imparare, imparare, imparare sempre e insegnare senza mai salire in cattedra, anche se avrebbe potuto benissimo farlo. Quando giocò la prima partita in Serie A con la maglia del Milan era il campionato 1957-1958. In quella squadra magica c’erano anche Gigi Radice, Nils Liedholm e Cesare Maldini. L’allenatore era Gipo Viani, una sorte di università del pallone. Era l’anno del lancio del primo satellite nello Spazio, il sovietico Sputnik. Un altro mondo e oggi che è cambiato tutto, il Trap è ancora lì, attivissimo sui social, capacissimo di utilizzarli come un ragazzino. Ufficialmente non è in pensione, ha ricevuto ancora offerte ma ha declinato perché la moglie – conosciuta ai tempi del ritiro romano con la Nazionale Olimpica del 1960 – ha minacciato di cambiare la serratura. Il campo è una pagina chiusa ma è sempre lì, senza rimpianti, a parte il Mondiale nippocoreano chiuso in malo modo per colpa di un arbitro come Byron Moreno: «Quella partita vorrei rigiocarla, per il resto ho commesso errori ma sono stati fra i migliori insegnamenti che abbia mai ricevuto». Altro che il motto «l’unica cosa che conta è vincere», il Trap ci ha insegnato ben altro. Anche se le vittorie sono state tante. Da calciatore, sempre con il Milan ha raccolto due scudetti, due Coppe dei Campioni, un’Intercontinentale, una Coppa Italia e una Coppa delle Coppe. E in azzurro resta la perla di un Italia-Brasile a San Siro, lo stesso giorno dell’addio alla Scala di Maria Callas. Non fece toccar palla a Pelé, che anni dopo ebbe a dire: «Quel biondino era bravo davvero. Pulito, preciso, non tirava alle gambe: giocava d’anticipo».
Da tecnico il Trap ha cominciato con la tuta rossonera ma il meglio l’ha ottenuto con la Juventus e con l’Inter. È il primo italiano ad aver vinto scudetti in quattro tornei: in Italia, in Germania con il Bayern, in Portogallo con il Benfica e in Austria con il Salisburgo.
E poi ci sono le Nazionali. L’avventura con quella italiana è stata sfortunata. La storia dei Mondiali 2002 è la più grande amarezza vissuta in panchina, quasi come quella di Euro 2004 del biscottone Svezia-Danimarca. E c’è anche l’imbroglio di un gol da annullare invece convalidato alla Francia nello spareggio con la sua Irlanda per il Mondiale del 2010. Sarebbe stato un Mondiale meritatissimo.
Gli hanno messo addosso molte etichette, prima di tutte quella del difensivista per via dell’allenatore con il quale è stato più legato, Nereo Rocco. Ma chi ricorda le grandi squadre del Trap, ancora con i numeri fissi, non può fare a meno di snocciolare quelli dal 7 all’11 della Juve: Causio, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek. E che dire della Fiorentina 1998-1999 che era in testa e a gennaio perse Batistuta per un infortunio e vide “scappare” Edmundo al carnevale di Rio.
Poi, certo, ci sono le frasi celebri come “Mai dire gatto se non l’hai nel sacco”, la conferenza stampa in un tedesco strampalato con il ritornello “Strunz, Strunz” . Era il nome di un giocatore ma voleva dire altro.
E ci sono i meravigliosi spot per la Fiat girati con l’amico Bruno Pizzul, una proposta di farlo senatore a vita e la leggerezza genuina che ha accompagnato i periodi da opinionista tv. Ottant’anni di un’eterna primavera, la storia d’amore fra l’uomo e il pallone. — BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto