Caruso fa commuovere tutti. E Bernal già si veste di rosa
Il siciliano scappa da lontano, vince all’Alpe Motta e ipoteca il secondo posto prima della crono finale. Acclamato dalla gente fa la sintesi perfetta: «Sono l’uomo più felice del mondo»
ALPE DI MOTTA. Il finale di Giro d’Italia più bello all’Alpe Motta sotto la statua in lamine d’oro della Nostra Signora d’Europa inaugurata nel 1958 dal futuro Papa Montini. Una marea di gente assiste alla vittoria di Damiano Caruso, il gregario di lusso della Bahrain, diventato capitano in corsa e capace di dipingere un capolavoro nell’ultima tappa di montagna.
Vittoria, meritatissima, dopo un attacco geniale iniziato nella discesa del Piccolo San Bernardino, la prima delle tre salite di giornata. E sull’Alpe c’è un altro vincitore, annunciato: Egan Bernal. Controlla, allunga nel finale su Simon Yates (Exchange) e, alla vigilia della crono di Milano – 30 km piattissimi da Senago –, blinda a quadrupla mandata la vittoria finale. Il Giro, così, è diventato, soprattutto grazie al siciliano di Ragusa – innamorato della propria terra, figlio d’un ex poliziotto che negli anni ’80 fece anche la scorta al giudice Falcone – la corsa degli italiani.
Il capolavoro è iniziato nella discesa del San Bernardino in Svizzera, un’abbuffata di rettilinei e tornanti con attorno ancora abbondante la neve. Caruso, secondo a 2’29”, spalleggiato da Pello Bilbao, si fionda dietro a Romain Bardet (Dsn), che vuole recuperare terreno.
Attacco inatteso, geniale, sì forse anche rischioso. Ma questo, vivaddio, non è quello che piace alla gente?
Vanno a prendere i 5 fuggitivi e continuano la loro azione anche sul Passo Spluga. Attaccare è meglio che inseguire, il siciliano speranza d’Italia, sa di rischiare grosso. Perché dietro c’è la solita Ineos con la maglia rosa che spreme a uno a uno i suoi pretoriani. Con la solita freddezza.
Davanti il trenino guadagna, ancora tra rettilinei e tornanti. Ancora tra la neve, ben oltre quota duemila. Fino a 41” al gpm, l’antico passo dell’Orso, 30 km dalla fine. E piove. Non c’è il sole come alla Sega di Ala e all’Alpe di Mera.
Caruso sta bene, molto prima del passo mette la mantellina. Discesa e botta finale: poco più di sette km all’insù verso l’Alpe Motta, strada scavata nella roccia, gallerie, tornanti. Non impossibile, ma decisiva.
Che Caruso comincia con 40” di margine sui rivali. Tattica perfetta, una genialata, altro che. Il siciliano, classe 1987, mai una vittoria al Giro ma, attenzione, già una top ten al Tour, ringrazia da gran signore Pello quandolo spagnolo non ce la fa più, e molla Baardet.
È un finale straordinario, la gente, tanta, tantissima che è salita all’Alpe sin dal mattino anche in bici o con la funicolare che buca la montagna, è in estasi. Come il cittì Davide Cassani, che, sulla moto Rai, a un certo punto lo affianca e si commuove. Dietro Yates, attaccante “in pectore”, invece stecca. Martinez finisce il suo compito (e arriverà lo stesso incredibilmente terzo), Bernal all’ultimo chilometro controlla e Caruso, sul rettilineo finale, guardato dall’alto dall’imponente statua della Madonna, si gode il successo di tappa nella corsa rosa e soprattutto blinda il secondo posto. Ora ha 1’24” di vantaggio su Yates e va più forte dell’inglese contro il tempo. È Felice, quasi incredulo. Arriva la moto del cittì che se lo abbraccia.
«In quegli ultimi 200 metri ho pensato a mille cose, alla famiglia, al mio procuratore Maurio Battaglini che non c’è più, al mio team, poi a me stesso che ho lavorato duro: sono l’uomo più felice del mondo», dice. «Non pensavo di vincere, ma km dopo km ho deciso di andare a fondo e non vanificare il grande lavoro che aveva fatto Pello: il 70% della vittoria è suo». Leggete il finale «Io campione? Se si sacrificava mio padre per un milione e 200 mila lire al mese, lo posso fare anch’io che prima di un corridore voglio essere una brava persona. Ho 33 anni, ma posso ancora dare tanto con una nuova consapevolezza». Cosa c’è da aggiungere di più?
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