Causio 70: «Udine è diventata casa mia Qui ho riscoperto il valore dell’amicizia»

Non è facile decidere da dove cominciare a raccontare una storia lunga 70 anni, quelli che oggi compie Franco Causio, leccese e friulano adottivo, campione del Mondo a Spagna ’82 e stella della Juventus negli anni Settanta. Stasera Causio sarà celebrato allo stadio Friuli da molti dei suoi ex compagni di squadra. «Porterò con me la maglia numero 7 che Scirea indossò nella finale del Bernabeu con la Germania. Gliela chiesi nello spogliatoio a fine gara, sapeva quanto ci tenevo e non batté ciglio. Se Gaetano fosse ancora vivo stasera sarebbe con noi».
A rivivere un racconto che comincia a Lecce nel 1949. Siamo in pieno dopoguerra, papà Oronzo ha un negozio di bombole del gas che consegna a domicilio con un’Ape. «La stessa che usava per venirmi a prendere a scuola e portarmi al campo d’allenamento», ricorda Franco che non nasconde un soffio d’emozione nel ricordare i suoi genitori. «L’evento di stasera lo dedico soprattutto a loro».
Sono state tante le figure che Causio ha trovato al momento giusto e al posto giusto nel corso della sua carriera. «Il mio primo maestro fu Attilio Adamo – racconta Causio –. Si costruì il suo gruppo di ragazzi nel vivaio del Lecce e ci portò fino alla Primavera. Io esordii a Reggio Calabria in serie C perché la prima squadra fece sciopero perché non riceveva gli stipendi». Ci fecero giocare anche le successive due gare con Sambenedettese e a Chieti». Un segno del destino visto che Reggina e Sambenedettese saranno due delle tre sue squadre della gavetta.
Il passaggio a Samb del Tronto avviene quando Franco aveva appena 16 anni: «Non essendo maggiorenne serviva il consenso dei genitori. Fu Adamo a convincere mio padre dicendogli: “Se il ragazzo se la sente lascialo andare, certi treni non sai se ripassano. Fallo provare”». Papà Oronzo fu convinto. A San Benedetto Causio troverà la seconda figura importante della sua carriera, mister Eliani. Il tecnico triestino era entrato l’anno precedente nello spogliatoio del Lecce ed era stato chiaro: «“Me piasi il mulo col 9” – ricorda Franco –, io non capivo cosa volesse dire». Quella stagione (’65-’66) fu caratterizzata da una lunga serie di provini. Causio va a memoria: «Torino, Mantova, Inter. Fu allora che conobbi per la prima volta Enzo Bearzot che era il secondo di Rocco al Toro». Le relazioni del Vecjo furono lusinghiere e Causio era sicuro di finire al Torino. Sul finire della stagione fu aggiunto un provino a Forlì per la Juventus. «Feci tre gol in venti minuti e venni subito sostituito. A bordo campo incrociai l’osservatore della Juve che mi fece i complimenti. Era Luciano Moggi. Nonostante tutto ero convinto di andare al Torino, poi durante l’estate arrivò a casa la convocazione per il giorno X alle 9.30 in Galleria San Federico. La sede della Juve».
«A San Benedetto vivevo in appartamento, a Torino pensavo avrei ricevuto lo stesso trattamento, invece mi dissero: sei un ragazzino, mettiti in riga. È stata la mia fortuna. Mio padre mi ha insegnato il rispetto, alla Juve ho capito che si arriva solo attraverso l’umiltà, il sacrificio e il lavoro. Oggi i giovani vogliono tutto e subito, io sono contento del cammino che ho fatto».
Due anni a cavallo tra la prima squadra e la Primavera, l’esordio nella massima serie a Mantova, poi ecco le stagioni a Reggio Calabria in B e poi a Palermo in A. A Reggio il preparatore atletico era un certo Franco Scoglio, a Palermo Franco si sentiva un re. Alla prima giornata segnò contro l’Inter. «Mi marcava il grande Giacinto Facchetti». Ma fu la partita con la Juve, dove Causio fece diventare matto Cuccureddu, che gli valse il ritorno a Torino. «Tu torni indietro», gli promise Boniperti.
Ecco, il presidente della Juve è stata la terza grande figura di riferimento. La quarta fu Armando Picchi, ex libero dell’Inter e primo allenatore di Causio alla Juve: «Io non giocavo in campionato, ma in coppa delle Fiere. Alla fine del primo tempo della gara con il Milan si girò verso di me e disse: “Maestro scaldati, entri tu. E non uscirai più”. Quando gli chiesi perché mi aveva chiamato maestro disse: “Guarda l’ho usato per due calciatori in vita mia, uno sei tu, l’altro Mariolino Corso”».
Undici anni alla Juve, sei scudetti, una Coppa Uefa e una Coppa Italia. E poi la Nazionale con tre mondiali. «Nel ’74 alla vigilia eravamo la squadra da battere, poi pagammo il dualismo Mazzola-Rivera. Chi fa la mezzala e chi sta sulla fascia? Alla fine pagai io. Con L’Argentina sostituii Gianni, fu la sua ultima gara in azzurro». Argentina ’78. «Non ci vollero far arrivare in finale altrimenti l’Argentina quel Mondiale in casa non l’avrebbe vinto». Poi Spagna ’82: «Zoff e Scirea festeggiarono in hotel il titolo mondiale, io andai in giro per Madrid con degli amici arrivati dall’Italia».
Il titolo Mondiale l’ha vinto da giocatore dell’Udinese. In Friuli ci arrivò un anno prima. «Non so chi mi fece fuori alla Juve, decisero di puntare sui giovani, fosse dipeso da me non me ne sarei mai andato». Nella vita, però, dopo che si chiude una porta si apre un portone: «Dovevo incontrarmi con Dal Cin a Linate, lui non si presentava e io andai a fare il biglietto per Brindisi. Arrivò in extremis, trovammo l’accordo in cinque minuti: disse di sì a tutte le mie richieste». Quell’Udinese con Zico avrebbe potuto pensare davvero in grande. «Era già pronta la lista della spesa per la stagione successiva, poi è successo quello che è successo. La mia più grande soddisfazione in bianconero? Arrivai tra lo scetticismo generale, pensavano venissi a svernare e invece... Mi diede una grande carica Bearzot: “Vai nella mia terra, dimostra che non sei finito e ti porto al Mondiale”. Poi a Udine ha finito per viverci con la moglie Andreja dos Anjos e il figlio Gianfranco. «Qui mi sono trovato subito bene, ho riscoperto i valori dell’amicizia e degli affetti. A Torino avevo perso un po’ la dimensione reale, vivevo su una nuvoletta. In Friuli siete un po’ diffidenti, prima di aprirvi ci mettete un po’, ma quando lo fate è per sempre». —
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