Gracis è l’architetto dell’Apu: «La promozione un trionfo inatteso»

Il direttore sportivo dell’Old Wild West ci ha messo solo due anni a riportare Udine in serie A, e ora si gode il trionfo: «Dalla vittoria sul campo di Cantù abbiamo acquisito consapevolezza»

Giuseppe Pisano
A sinistra, il direttore sportivo dell’Apu Old Wild West, Andrea Gracis domenica a bordo campo al Carnera con Gianpaolo Graberi e Michele Antonutti. Foto Petrussi
A sinistra, il direttore sportivo dell’Apu Old Wild West, Andrea Gracis domenica a bordo campo al Carnera con Gianpaolo Graberi e Michele Antonutti. Foto Petrussi

Vincente da giocatore e da direttore sportivo. Andrea Gracis collezionava titoli quando indossava canotta e scarpette, fa altrettanto in giacca e cravatta. Il dirigente trevigiano ci ha messo solo due anni a completare la missione di riportare Udine in serie A, e ora si gode un nuovo trionfo.

Gracis domenica 13 aprile ha brindato alla promozione con un Friulano o con un Prosecco del trevigiano?

«Decisamente con un Friulano. Sono qui e sono orgoglioso di aver contribuito a riportare Udine nella massima serie».

Il progetto avviato nell’estate 2023 con Vertemati è triennale. Si aspettava di salire in A già al secondo anno?

«Non ne ho mai fatto una questione temporale. Con Adriano ci abbiamo provato subito, l’anno scorso avevamo un’ottima squadra ma siamo stati un po’ sfortunati, vedi infortunio di Clark, e comunque ci è mancato qualcosa. Ci abbiamo riprovato cambiando tipo di squadra, e ci siamo riusciti con un pizzico di fortuna e tanto lavoro. Merito di tutto lo staff e della proprietà. Un trionfo forse inatteso e per questo ancora più bello».

Quando ha pensato “è l’anno buono”?

«Ci sono stati vari segnali. Sicuramente la vittoria sul campo di Cantù ci ha dato forza e compattezza. Lì abbiamo preso consapevolezza di essere competitivi. Più di tutto, però, mi ha dato forza e fiducia il vedere gli allenamenti. Non ho visto una sola seduta buttata via per svogliatezza e disattenzione».

C’è stato un momento di scoramento?

«Pochi e brevissimi. Non abbiamo mai perso due volte di fila, forse solo Livorno è stata una botta non facile da assorbire. Così come non è stato semplice affrontare gli infortuni di Pini e Stefanelli. Lì è stato bravo il presidente a intervenire rapidamente con innesti importanti. Abbiamo sempre reagito rapidamente alle difficoltà».

La scorsa estate in molti storcevano il naso, dicendo che avevate preso due pivot anziani.

«È giusto che ognuno esprima dica la sua, d’estate come durante il campionato, quando si diceva che tiravamo troppo da tre. Io continuo a pensare che questa squadra è stata una bella scoperta per tutti. Quando trovi l’incastro giusto conta poco che un giocatore sia alto o basso, biondo o moro, giovane o vecchio. Contano unione e professionalità. Io non ho mai avuto dubbi, né sui giocatori, né sulle persone».

A giugno sembravate sulle tracce di un play italiano di stazza, spuntò il nome di Fantinelli. Poi viraste su Hickey.

«Non nascondo che Fantinelli era un obiettivo, ma non sempre dettiamo noi il mercato. Pesavamo fosse adatto al basket di Adriano, ha valutato seriamente la nostra proposta ma conoscendolo sapevo sarebbe rimasto a Bologna. Un tentativo andava fatto. È stata una “sliding door” della stagione: chiusa una porta se n’è aperta un’altra migliore e siamo andati dritti su Hickey. Trattativa veloce, noi volevamo lui e lui voleva noi».

Andiamo ancora più indietro: cosa vi ha insegnato il primo anno all’Apu?

«Abbiamo capito meglio il tipo di gioco che si fa in A2 e i giocatori più adatti a questo tipo di basket. Io dico che s’impara sempre e ci si porta dietro un bagaglio. Il primo anno ero nuovo, lo staff anche. La scorsa estate abbiamo ricominciato con un anno d’esperienza e d’ambientamento in più».

Lei è stato referente in Europa per i Sacramento Kings. Conosce bene il Vecchio Continente, il viaggio negli Usa auspicato da Pedone è proprio necessario?

«Il mercato è cambiato, ma non si parla di virare su giocatori europei, bensì di americani che giocano in Europa e possono fare bene perché è un bacino più diretto e ampio a cui attingere. Agli americani che arrivano nel nostro continente servono uno o due anni di apprendistato. Tutto però può accadere, anche la G-League è un’opportunità. Noi in A saremo una matricola, quindi dovremo fare poche scommesse, serviranno giocatori collaudati».

Pensate di affidare alla formula 5+5 o al 6+6?

«È ancora presto per parlare di temi tecnici futuri. A breve ci siederemo al tavolo con Vertemati e Pedone».

Dovrete smembrare giocoforza il roster della promozione. È il lato brutto della medaglia?

«Dal lato umano sì. Resteranno ricordi indelebili per tutti, voglio ringraziare ognuno di questi ragazzi per la dedizione e per aver fatto un passo indietro in nome del gruppo».

Lei e Vertemati non amate apparire e amate dedicarvi al lavoro. Concorda?

«Sì. Siamo simili per caratteristiche e arrivati in una terra che preferisce i fatti all’immagine, io in questa filosofia mi trovo bene. C’è un motto che amo e dice “Lavora forte in silenzio e lascia che i tuoi successi facciano rumore”».

Sabato 19 aprile andate a Pesaro da campioni dal suo amico Walter Magnifico. Contento?

«Sarà un bel momento, è prevista una rimpatriata con la squadra dello scudetto 1988, ci ospiterà Walter Scavolini. Me la godrò senza tensioni». 

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