I 60 anni di Tedino, "idolo" del Pordenone calcio

Per tre volte tecnico dei ramarri, nel 2016 sfiorò la promozione in B: «Il miracolo della mia carriera»

Alberto Bertolotto

Bruno Tedino, inevitabile partire da quel 13 agosto 1964. «I miei genitori, papà beneventano e mamma carnica, vivevano a Sacile, ma quel giorno si trovavano in Carnia dai miei nonni. Così nacqui a Udine. Sino ai 7 anni vivemmo in riva al Livenza, quindi il trasferimento a Treviso per seguire mio padre, maresciallo dei carabinieri».

Fu lui a trasmetterle la passione per il calcio?

«Sì, era un tifoso del Torino. Mi portava a giocare a Sacile, nei campetti dove attualmente si trova lo stadio Sfriso. A Treviso, quando avevo otto anni e mezzo, il primo provino con i ragazzi più grandi, nati nel 1961. L’allenatore sosteneva che ero troppo piccolo. La squadra era il Selvana Calcio. Una volta andato via, arrivò all’improvviso una palla, che stoppai perfettamente. Il tecnico se ne accorse: “Torna qua”, mi disse. Così iniziai».

Da allora un viaggio che durò quasi quindici anni.

«Alla Fulgor Trevignano incontrai il mio maestro di calcio, Andrea Agnoletto. Militai nel Giorgione, Cittadella, Mestre, vinsi due campionati. Mi ritirai nel luglio 1985, dopo essere sceso al Montello in Promozione dal Mestre in serie C. Soffrivo di pubalgia. Lo stesso Agnoletto, in seguito, mi chiese di riprovarci, ma non ce la facevo più. Mi propose di allenare. Prima rifiutai, poi accettai. Nel 1986, a 22 anni, mi trovai a capo della squadra Giovanissimi del San Donà. Vinsi subito il campionato».

Sino al 1997 allenò nel settore giovanile. Cosa l’è rimasto a oggi della forma mentis di un tecnico del vivaio?

«Il sentire ancora l’esigenza di migliorare i calciatori. Con loro, al tempo, dovevi convincerli col lavoro sul campo. Non c’erano i video come oggi. Fu una grande palestra. Lavorai a San Donà sino al 1987, quindi Treviso (88-91), Conegliano (91-93), Venezia. Tanti i giocatori che ho impressi nella mente: Gianfranco Nardi, tra i più forti che ho allenato, Evans Soligo, Maurizio Coccato, capitano degli allievi del “mio” Venezia che non c’è più. Lo voglio ricordare ancora oggi».

Quegli anni la portarono a esordire tra i “grandi” quando non aveva ancora compiuto 33 anni.

«Mi ritengo fortunato. Andai in C2 a San Donà. Attorno a me sentivo grande considerazione, ero gettonato. Certo, avevo tanta energia. Firmai un contratto triennale. Portai avanti le mie idee nate nel settore giovanile. L’inizio non fu dei migliori, poi facemmo un grande percorso (la squadra chiuse decima, ndr). A fine stagione passai al Novara, sempre in C2, ma commisi un errore. A metà stagione si verificò il cambio di proprietà, a marzo diedi le dimissioni. Fossi rimasto a San Donà avrei completato il percorso, infatti la squadra salì poi in C1».

Intervenne il Pordenone e nacque la sua storia coi ramarri e con la città in cui vive.

«Mi chiamò il direttore sportivo Mauro Gibellini, lavorammo assieme a San Donà. Mi propose un progetto pluriennale. Allora i neroverdi militavano in serie D. Il ds poi andò all’Alto Adige, io rimasi due anni al Pordenone. Prima il quinto posto, poi quella seconda piazza e la promozione sfumata dopo il match col Thiene. Come definisco quel ko? Come una della delusioni più cocenti maturate in carriera. Era il 2001. Andai alla Primavera del Treviso, dove guidai la Primavera dei vari Reginaldo, Barreto, Poli, poi dal 2003 scelsi di stare in riva al Noncello con la mia famiglia, che mi ha sempre aiutato e supportato nel mio percorso lavorativo».

Un salto al 2015, quando tornò tra i ramarri e nel giro di due anni sfiorò per due volte la promozione in serie B.

«Il Pordenone del 2015-16 è stato il miracolo sportivo della mia carriera. Da ripescati, con una formazione costruita in parte alla fine del mercato, arrivammo alle semifinali play-off col Pisa. Si era creata una chimica straordinaria, bravi i giocatori a costruirla tra loro. La stagione successiva fu altrettanto strepitosa. Peccato essere arrivati incerottati alla semifinale post-season col Parma. È rimasto il rammarico di non aver valorizzato del tutto quanto avevamo fatto sul campo».

Tra i tanti ragazzi che ha guidato, in quel gruppo c’era Mirko Stefani, ora responsabile del vivaio del Nuovo Pordenone Fc. Che ricordo ha di lui?

«Quando rivedo la sua doppietta al Bassano, nei play-off di serie C del 2017, ho ancora la pelle d’oca. È stato un esempio. Lo ritengo tra i migliori ragazzi che ho allenato. Gli auguro il meglio nel suo nuovo ruolo, lo stesso dico per il nuovo club nato pochi mesi fa. Lo seguo con simpatia e vedo una società solida, orientata a compiere un passo per volta».

Mister, dal 2003 al 2008 allenò tra serie C2 e C1 club come Pistoiese e Sangiovannese, passò poi allo Jesolo in D dove rimase sino al 2013 con il nuovo sodalizio Sandonà-Città di Jesolo. È a maggio di quell’anno che arrivò forse la chiamata più importante della carriera?

«Mi telefonò Maurizio Viscidi, che lavorava come oggi in Figc. Avrei potuto diventare ct di una nazionale giovanile. Un mese più tardi ebbi il colloquio decisivo con Arrigo Sacchi, allora coordinatore tecnico delle nazionali giovanili. Andai a Milanello, dove si in ritiro con l’U21. Parlai con lui mezzora, affrontammo tanti aspetti tecnici. Poi mi chiese un esempio di attaccanti complementari. “Vialli-Mancini”, gli dissi. Lui mi rispose: “Benvenuto nel Club Italia”. Reggere il confronto con Sacchi è stata per certi aspetti la più grande soddisfazione tecnica della mia carriera, assieme al Master di Coverciano ottenuto con 110 e lode assieme a Billy Costacurta e Ciro Ferrara».

Guidò la nazionale U16 e U17 e tanti talenti come Gianluca Scamacca e Gigio Donnarumma.

«E Manuel Locatelli, che per me alla Juventus questa stagione può rilanciarsi. Gigio un fenomeno, Scamacca calcia magnificamente di destro e di sinistro. Ricordo con piacere di avere allenato alla Pistoiese ragazzi come Federico Parolo, diventato poi capitano della Lazio e Manuel Cacia, tra i bomber più prolifici di tutti i tempi della serie B».

A proposito di serie B: Palermo ha rappresentato il picco della sua carriera?

«Rappresentava un’opportunità irrinunciabile, perciò, dopo aver chiesto autorizzazione al Pordenone, parlai col club siciliano. Due giorni dopo la semifinale play-off persa nel 2017 coi ramarri mi chiamò il presidente Maurizio Zamparini. Dopo 15’ di colloquio diventai il mister dei rosanero. Ero dispiaciuto di lasciare i neroverdi, ma non potevo dire “no”. Venni esonerato a quattro giornate dalla fine in piena zona promozione. Un vero peccato».

Dopo le esperienze di Teramo e Virtus Entella, tornò a Pordenone per provare a salvare la squadra in serie B. Tornasse indietro, visto che l’avventura finì con la retrocessione, accetterebbe nuovamente la proposta?

«Allora accettai per amore per il Pordenone».

Come si spiega a oggi il fallimento del club?

«Mi ha sorpreso perché reputo il presidente una persona molto intelligente. Lui era bravo ad anticipare i tempi, fantasticava qualcosa che pareva inverosimile ma che poi diventò realtà».

Tedino, gli ultimi anni, a parte la bella salvezza di Trento del 2023, sono stati un po’ sotto le aspettative. Adesso è ai box. Si vede ancora allenatore? È pronto a rientrare?

«Nell’ultimo periodo non sono più riuscito a creare determinate condizioni tecnico-tattiche che portano poi ai risultati. Sul ritorno in panchina, ho pensato ultimamente a cambiare mansione. Però poi ho deciso di rimanere sulla “mia” strada, mi vedo ancora come tecnico, sino a quando ho questa passione continuo. E poi ho un sogno da realizzare».

Quale?

«Allenare mio figlio Giovanni. Vorrei che il nostro rapporto, che è sempre stato forte e leale, si estendesse anche in campo».

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