Italia ’90, il Grande sperpero e il conto è ancora da pagare

UDINE. Siam qui, a novemila chilometri di distanza, quasi increduli di fronte a cifre e notizie che rimbalzano dal Brasile sul prossimo Mondiale. Sì, il primo pensiero è certamente su quello che potranno fare gli azzurri di Cesare Prandelli ma, volendo, ci sarebbe anche dell’altro e di molto più preoccupante. Ci sono, ad esempio, scandali, proteste, morti nei cantieri, lavori in ritardo e costi che sono così alti da renderli quasi incomprensibili. Il tutto in un quadro di sempre maggiore prosperità della Federazione mondiale e del suo presidente Joseph Blatter, con un miliardo di euro di entrate e un utile netto di 52 milioni.
Scandalizzarsi almeno un po’ è doveroso ma andando indietro nel tempo potremmo scoprire che noi italiani – quando abbiamo organizzato i Mondiali nel 1990 – abbiamo saputo fare peggio, molto peggio. Memoria corta, certo, per quelli che 24 anni fa erano almeno in età da comprendere. Ma non solo; gli anni passano, lo scorrere degli scandali crea assuefazione e appiattisce tutto quanto.
E così, mentre le notizie brasiliane di morti nei cantieri degli stadi appaiono talvolta così ovattate nella sequenza dei rulli dei siti internet o nelle brevi dei giornali cartacei, il recupero della memoria di quanto accadde dalle nostre parti può essere utile per capire che fu molto peggio di un insuccesso. Al punto che – incredibile ma vero – quei conti li stiamo pagando ancora oggi. Nel bilancio di previsione 2014 di Palazzo Chigi, fra le voci passive ci sono ancora 61milioni e 200 mila euro per i mutui accesi nel 1987 anche per impianti nel frattempo già demoliti.
Cifra relativamente modesta se a confronto con altre purtroppo ben più pesanti che funestano le uscite di una Cosa pubblica in preda al dissesto, ma che è comunque sintomatica di un fallimento e di un modo di fare che negli anni ha sempre scaricato sul futuro gli sprechi del presente. E, purtroppo, non è il solo aspetto negativo di quell’operazione.
Il disastro brasiliano. Prima di parlare di noi, serve una “fotografia” della situazione brasiliana. Sei stadi ancora da completare a poco meno di 70 giorni dal primo calcio d’inizio, già sette vittime nei cantieri e costi lievitati fino a far costare questo Mondiale quasi quanto o forse più dei tre precedenti messi assieme. La cifra è ballerina, a seconda della fonte dalla quale si attinge ma si oscilla comunque su bilanci da capogiro: da otto a 11 miliardi di euro contro i quattro di Corea del Sud e Giappone nel 2002, i quattro e mezzo di Germania 2006 e i due miliardi e 600 milioni di quattro anni fa in Sudafrica.
Le proteste. E dunque, sullo sfondo di un’ondata di proteste che potrebbe creare ben più di un problema – se n’è avuto un pesantissimo assaggio la scorsa estate durante la Confederations cup – il Brasile si appresta ad affrontare un’avventura perigliosa. Certamente ben più di quella che la sua nazionale dovrà affrontare sul campo.
Per difendersi dagli assalti che ci saranno quasi in ogni città durante la competizione, alimentati da una disperazione sempre più crescente e dalle disparità accresciute dallo stesso Mondiale, il presidente Dilma Roussef e i suoi ministri hanno messo in piedi speciali e costosissimi battaglioni antisommossa: il “Comando di polizia per la Coppa del mondo”, con 3.840 elementi scelti fra i Corpi di élite. Dunque un Mondiale blindatissimo, così blindato che lo stesso presidente brasiliano e quello della Federazione hanno annunciato che diserteranno la cerimonia inaugurale: la contestazione sarebbe così feroce da non poter andare avanti.
Piace solo a uno su due. Impensabile, guardando da lontano e con largo anticipo, questo scenario. Il Brasile nell’immaginario popolare è tutto calcio, carnevale, samba, belle donne, spiagge dove tutti giocano con il pallone. Ma ci sono anche le ampie sacche di povertà, le favelas. E aver costruito enormi stadi a ridosso di alcune di queste aumentando nel frattempo i prezzi dei biglietti degli autobus non ha certo contribuito a far lievitare i consensi per questa grande manifestazione e per le Olimpiadi che nel 2018 si svolgeranno a Rio de Janeiro. Un sondaggio dell’istituto Datafolha ci spiega che oggi appena il 52 per cento dei brasiliani è a favore, mentre il gradimento a fine 2008 era del 78 per cento ed era già sceso al 65 nel giugno scorso al culmine delle oceaniche manifestazioni a margine della Confederations cup.
Da noi tutti contenti ma... In Italia 24 anni fa, almeno all’apparenza, erano quasi tutti contenti, concentrati sulle gesta della squadra di Totò Schillaci, Walter Zenga, Roberto Baggio guidata da Azeglio Vicini. Anche quella una grande occasione persa, con un terzo posto amaro dopo la semifinale di Napoli persa ai rigori con l’Argentina di Diego Armando Maradona. Ma non fu niente al confronto di quel che accadde tutto intorno.
Spese, una voragine. Il Mondiale, sul piano dei costi, fu una specie di voragine, un’idrovora che ha esteso fino a oggi e oltre i suoi effetti, con appalti dai costi lievitati con percentuali a tre cifre. E alla fine il conto, presunto, perché non è detto che poi non sia sfuggito qualcosa, è stato di almeno di 7.230 miliardi delle vecchie lire (più di 6.000 provenienti dalle casse statali), in euro 3,74 miliardi, ma ci sono anche altre interpretazioni di quelle spese che portano la cifra oltre i quattro miliardi. Anche restando al conto più basso – quello dei 3,74 miliardi – sia pur senza rivalutarli, siamo sopra le cifre spese in Sudafrica e a ridosso di quelle stanziate in Germania e in Corea-Giappone.
Con la rivalutazione Istat si arriverebbe a quasi 7 miliardi e mezzo, una cifra che si può ricavare anche più empiricamente considerando che allora un biglietto del bus costava 900 lire (46 centesimi), un quotidiano 1.200 (62), un caffè 700 (36). Indubbiamente spendemmo uno sproposito, considerando anche che gli americani, quattro anni dopo, tirarono fuori l’equivalente di 80 miliardi di lire, poco più di 40 milioni, grazie a impianti e infrastrutture già esistenti.
Le 24 vittime italiane. Anche in tema di sicurezza fu un disastro. Niente al confronto delle centinaia di vittime già conteggiate per gli impianti dei Mondiali 2022 in Qatar, ma lì si parla di condizioni di semischiavitù. No, nella civilissima Italia, si dovettero contare 12 vittime nei cantieri degli stadi e altre 12 in lavori esterni. In totale furono 678 gli infortuni sul lavoro, un’enormità. L’incidente più grave avvenne allo stadio palermitano della Favorita (oggi Barbera), con cinque operai schiacciati dal crollo di una tettoia e oggi ricordati con una targa. Seminascosta.
Appalti d’oro. E fu spaventoso il livello di crescita delle spese previste. Lo stadio Delle Alpi a Torino – nel frattempo demolito per far posto al più moderno Juventus Stadium – ha presentato un rialzo di spesa del 214 per cento. L’incremento medio, secondo una relazione presentata in Parlamento dall’allora ministro delle Aree urbane, Carmelo Conte, fu dell’84 per cento.
Non ci fu luogo dove i conti non sballarono: l’ Olimpico di Roma vide lievitare i costi del 181 per cento, a Bologna si “fermarono” al 91, a Verona all’81. L’impianto più costoso, alla fine, fu quello della Capitale con 235 miliardi di lire (121 milioni), anche perché – nonostante ci fosse tutto il tempo per appalti regolari – l’86 per cento dei lavori fu affidato grazie a trattative private; di fatto quasi nove appalti su dieci erano senza alcun controllo. E pensare che i propositi, almeno sulla carta, furono ben altri.
Il Mondiale fu assegnato nel 1982 e appena due anni dopo il presidente del Comitato organizzatore locale, Franco Carraro, ebbe a dire: «Il Mondiale sarà l’occasione più opportuna per dimostrare non solo le nostre capacità organizzative ma anche l’alto livello tecnologico raggiunto in tutti i settori della vita nazionale». Sì, certo, come no? Carraro già all’epoca era uno fra i più attivi collezionisti di poltrone: fra le altre cose, per tre volte ministro in quota Psi, dal 1989 al 1993 sindaco di Roma, dal 1978 al 1987 presidente del Coni. È stato presidente della Federcalcio – anche ai tempi di Calciopoli nel 2006 – ed è tutt’ora, a 75 anni, membro del Comitato olimpico internazionale e senatore di Forza Italia.
Il Comitato organizzatore. Alla direzione del Comitato organizzativo locale fu nominato Luca Cordero di Montezemolo, all’epoca 39enne reduce dall’epoca d’oro alla Ferrari con Niki Lauda e del Consorzio velistico di Azzurra. Il suo slogan fu “Realizzare un sogno” ma il sogno lo realizzarono – oltre ai tedeschi che vinsero sul campo – tutti quelli che riuscirono a lucrare su appalti d’oro non solo degli stadi ma anche su opere pubbliche di più che dubbia utilità e molto spesso lasciate incompiute.
Dalla stazione Ostiense in poi. Simbolo del disastro, quello che fu presentato come l’Air terminal di Ostiense, abbandonato poco dopo la fine dei Mondiali (costo 350 miliardi lire, 180 milioni di euro) e recuperato dalla fatiscenza nel 2012 da Oscar Farinetti per la catena di grandi negozi di cibi di qualità “Eataly” e, poco dopo, anche come stazione di partenza dei treni veloci del Consorzio Italo, del quale – ironia della sorte – lo stesso Montezemolo è stato presidente.
Gli altri disastri. Ma non fu certo l’unico pataccone a spese del contribuente: solo a Roma i tanti monumenti allo sperpero sono più che uno schiaffo al buon senso. Nella Capitale c’è una stazione che si chiama Farneto, in zona Farnesina, costata 15 miliardi di lire (oltre 7 milioni e mezzo di euro) e aperta solo per una ventina di giorni, il tempo di far fermare appena 12 treni, e poi deserta fino al 2008, quando è stata occupata dall’associazione Casapound. A Milano l’emblema del disastro è il maxi-albergo Ponte Lambro. Doveva essere una specie di “gioiello” legato al Mondiale e alla fine con il suo scheletro incompiuto è diventato un ecomostro, abbattuto solo nel 2012. Nella polvere sono finiti anche le decine di miliardi di lire spesi per tentare di completarlo. Invano, perché almeno qui il fiume di denaro a un certo punto si è esaurito.
Anche progetti comici. L’elenco degli sperperi è purtroppo lungo e forse non tutto è stato censito. Oltre alla stazione di Farneto, a Roma ce n’è un’altra che ha subito lo stesso destino, quella di Vigna Clara, con un’aggravante: divenne inservibile perché i tecnici sbagliarono a calcolare le misure di una galleria e due treni insieme non riuscivano a passare. E poi, maxiparcheggi e altre opere, inaugurati mesi e mesi dopo i Mondiali: a tre mesi dal via, solo 95 dei 233 progetti finanziati erano stati completati. E poi c’erano soprattutto stadi sovradimensionati e poco adatti al calcio. A parte quello di Torino, demolito nel 2008, anche quello di Bari rischia di finire sbriciolato dal degrado.
A Udine, il Friuli è in fase di ricostruzione su esigenze e dimensioni diverse, mentre il Sant’Elia di Cagliari è ridotto a poco più di un rudere. Quasi tutti questi impianti furono completati – alcuni sul serio, altri con qualche toppa – a ridosso del Mondiale. Una cosa mai vista altrove, al punto che lo scorso 18 marzo – di fronte alle contestazioni sui ritardi brasiliani – il presidente dell’Uefa Michel Platini ha preso proprio il Mondale italiano come (negativo) termine di paragone. All’epoca era un calciatore della nazionale francese e ha ricordato che, in fondo in fondo, in Brasile il problema è di lieve entità se rapportato a quelli di allora: «Nel 1990 si vedevano ancora operai che davano le ultime pennellate agli stadi poco prima dell’inaugurazione».
Ancora oggi paghiamo. Umiliazione internazionale a parte, sì dirà: acqua passata, anche se costosissima. No, non è così. Nel bilancio di previsione di Palazzo Chigi del 2014 – c’è ancora una voce che fa riferimento ai mutui accesi con una legge del 1987 per costruire gli stadi del Mondiale. Il conto è di 61 milioni e 200 mila euro, nel 2013 e nel 2012 sono stati altrettanti, nel 2011 erano 55 milioni e 60 nel 2010. Sperperi a lungo termine, dunque. E non è detto che nelle pieghe di altri bilanci pubblici non ci sia anche qualche altra brutta sorpresa. Soldi buttati in gran parte anche per interessi lievitati a dismisura. In quattro anni quasi 240 milioni di euro, poco meno di quel che si risparmia grazie all’ora legale nello stesso periodo: circa 300 milioni. Tante gocce nel mare di un modo di fare più diffuso che poteva esser solo superficiale o speculativo; fra le due cose non si sa quale sia quella meno inquietante. E viene da tremare a pensare all’ipotesi dell’Italia impegnata in un’altra grande manifestazione, visto che ci sono mire olimpiche per il 2024.
Inchieste finite nel nulla. Il disastro del 1990 ha avuto come eco solo l’apertura di numerose indagini, quasi tutte finite nell’impunità. Seguite da due proposte di commissioni di inchiesta parlamentare. La prima al Senato nel maggio 1992, a scandalo ancora caldo, proposta dal deputato Raffaele Costa (all’epoca Pli, poi Forza Italia) e un’altra nel maggio 1999 promossa dal senatore Athos De Luca (all’epoca dei Verdi, oggi Pd). Nelle pieghe di queste proposte, agli atti, sono rimaste solo parole amare: «Un’inchiesta della magistratura romana sugli sprechi di Italia ’90 – si legge nella relazione dell’onorevole De Luca – conclusasi con l’archiviazione di accuse di corruzione e abuso d’ufficio, lascia aperto il nodo delle responsabilità politiche e amministrative per tanti monumenti allo spreco e alla dissipazione del denaro di contribuenti».
Il Grande sperpero è così andato perso nell’oblio. E dunque il peggio di quel Mondiale non fu il pari di Caniggia nella semifinale con l’Argentina, i successivi rigori sbagliati e la coppa portata via dai tedeschi. Ci fu molto peggio di quell’uscita a vuoto di Zenga sulla testa dell’argentino che mandò in fumo i sogni. Quelli sportivi. Altri sogni meno nobili, mentre eravamo tutti quanti tristi per quella sconfitta, si stavano invece realizzando. Alle nostre spalle.
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