La scuola jugoslava nel dna di Lubiana

È la tradizione che ha portato gli sloveni sul tetto d’Europa. Dai mezzi serbi Dragic e Doncic a quei canestri in ogni paese

Su. Sul carro dei vincitori (con merito). Tanto c’erano anche i serbi su quello della Slovenia campione d’Europa di basket. Senza polemica, neppure per l’aggiustamento della legge che il parlamento ha approvato a Lubiana in quattro e quattr’otto per mettersi in nazionale uno come Anthony Randolph che ha bisogno del Tom Tom per arrivare sul “Ponte dei calzolai”. Hanno fatto squadra tutti capitalizzando quello che è il proprio dna, più che la cultura cestistica. Dna jugoslavo.



Chi conosce la geografia dei cognomi sa che forse quattro dell’intera formazione sono sloveni, gli altri sono più simili a quelli degli occasionali “nemici” della notte di Istanbul, a cominciare dal fenomeno Goran Dragić, nato nella capitale e figlio di un serbo, così come è serbo il padre della stellina Luka Dončić, quel Saša che qualcuno – ahinoi, con la carta d’identità consumata dal tempo – ricorderà nella Pivovarna Laško che duellava con l’immancabile Union Olimpija sugli schermi di TeleCapodistria alla fine degli anni 90. Saša, papà Dončić, per chi non lo sapesse è nato poi a qualche centinaio di metri dal confine italiano, a San Pietro di Gorizia, Šempeter pri Gorici per gli sloveni, paese famoso anche per avere dato i natali al calciatore Valter Birsa, ex milanista ora al Chievo Verona. Dončić è un po’ il concentrato dell’essenza jugo, visto che ha cominciato a giocare a basket in Slovenia e che dentro, nelle vene ha sangue serbo, del Kosovo serbo, la Metohija come dicono a Belgrado.

No, non fraintendete: questo Europeo, quello sloveno, vale tanto, tantissimo. Quale sportivo si sognerebbe di snobbare la Svizzera perché andrà ai Mondiali di calcio con Behrami, Xhaha o Seferović che non sono propriamente i cuginetti di Heidi? Ma capire da dove vengono i nuovi campioni continentali del basket, quale è il background ci aiuta a fare chiarezza sulle basi di questa vittoria e ad evitare la trappola dell’autocommiserazione italica: «Noi 60 milioni senza una medaglia nella pallacanestro da 13 anni, loro 2 milioni con l’oro al collo». Macchè 2 milioni. Gli sloveni che giocano a pallacanestro sono nipoti del dalmata Creso Ćosić da Zara, dove un murales con la sua faccia vi accoglie all’ingresso della città (chiedete al “balonero” dell’Udinese Stipe Perica che viene da là), sono i discendenti della tradizione jugoslava, quella che stava dietro ai baffi di Praja Dalipagic che molti friulani ricorderanno qui con la maglia dell’Apu, o a quelli di Dragan Kićanović, cecchino levantino che finì la propria carriera in Italia (giocava a Pesaro) dopo aver partecipato alla rissa di Nantes nel 1983, quando gli azzurri erano il nemico da battere agli Europei. Una battaglia epica vinta dalla nostra Nazionale, fatta anche di colpi proibiti, qualcuno disse perfino un paio di forbici estratte dalla borsa del massaggiatore dei plavi e brandite per minacciare Marco Bonamico, altro gigante che abbiamo poi visto giocare a Udine.

Altri tempi. Adesso i ragazzotti italiani sono figli della Playstation – più che dei nostri ultimi argenti olimpici Pozzecco, Galanda, Mian – e faticano a proporsi ad alti livelli, mentre i coetanei oltre il confine si sono trasformati in sei nazionali eredi della scuola jugoslava, quella fatta di un campo e un canestro in ogni santo paese, sia questo cattolico, ortodosso o musulmano. Di queste, quattro erano stavolta in Turchia per giocarsi lo scettro europeo, vista la presenza anche di Montenegro e Croazia, oltre alla Serbia e ai campioni. Chapeau Slovenia...

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