La seconda vita di Sonego, mister record

E’ ancora primatista italiano del giavellotto, gli hanno interrotto la carriera da allenatore. Ora sta per tornare e si racconta

PORDENONE. I capelli, un po’ brizzolati. L’assenza dei suoi “famosi” riccioli. Se si guarda bene, sono le uniche novità. Del resto, certe cose non cambiano mai. Così vai a trovare Carlo Sonego e lo trovi il solito guascone di un tempo. Disponibile, scherzoso, sereno. Sì, proprio lui, l’(ancora) attuale primatista italiano di lancio del giavellotto.

«Quel 84,60 resiste ancora» riflette. Già, da 14 anni. Ed è qui che l’ex atleta vuole tornare. Si è ritirato troppo presto, nell’anno del record (1999) e rivuole la sua passione, ma da allenatore. Lo è già stato, coach, dal 2006 al 2011 col veneto Gottardo. Poi la Fidal gliel’ha negato perché non aveva il patentino. «Sto ultimando le pratiche – dice – voglio tornare per far crescere i giovani e rinverdire la tradizione pordenonese».

La tradizione, Sonego. Il campo di atletica della città è intitolato ad Agosti, grande giavellottista, e lei ha tuttora il record italiano.

«Sono aspetti di cui dobbiamo andare orgogliosi. Questa disciplina è una delle più difficili dell’atletica, va valorizzata».

Lei è stato l’ultimo big in Italia.I primi anni non sono stati positivi, tra guai personali e una carriera che non decollava. Poi la svolta.

«E’ vero, a Ostia rischiato l’esclusione dal gruppo sportivo. Poi, nel 1998, mi feci seguire da Walter Rizzi, allenatore di Udine. Migliorai il record italiano, che resisteva da nove anni, partecipai agli Europei di Budapest. Che manifestazione: c’erano i più grandi, da Zelezny a Makarov, passando per Gatsioudis e Backley. Non andò male. E nel ’99 arrivò il lancio record».

Lo racconti in dettaglio.

«Osaka, maggio. C’era anche Zelezny, il migliore di sempre. Azzeccai tutto: rincorsa, piedi a terra, il tempo di entrata delle anche e quello di uscita del braccio. Non avevo mai sentito una fucilata del genere. Mi accorsi subito che era un buon lancio. Poi vidi 84,60. Straordinario».

E ancora oggi imbattuto...

«Provo più dispiacere che orgoglio. Perché la disciplina non cresce. Voglio rientrare anche per questo. Ho seguito Gottardo per 5 anni, con me è arrivato al top. Poi la Fidal mi ha ostacolato perché non ero un allenatore “certificato”. Ora sono quasi pronto e voglio tornare: da tanti anni il giavellotto è fermo in Italia, a Pordenone».

Perché, in provincia, ci sono stati buoni giavellottisti (Coassin per ultimo) che, da senior, non hanno sfondato?

«Non conosco bene le situazioni. Dico soltanto che l’attrezzo si lancia con tutto il corpo, non solo col braccio: conta la velocità, ma soprattutto la tecnica. Bisogna insegnarla. Il mio lavoro partirebbe da qui. Voglio mettere a disposizione non solo la mia esperienza, ma anche le mie idee. Che ci sono».

Torniamo alla sua carriera. Dopo il record, il ritiro.

«La spalla di lancio (la destra, ndr): avevo i tendini strapazzati. Mi sono dovuto operare due volte, non potevo più tornare. Dopo una carriera mediocre, avevo toccato il top. Subito dopo sono stato costretto a smettere. Quanti rimpianti. Avrei partecipato alle Olimpiadi di Sydney, avrei continuato fino ai 35 anni: niente da fare».

Lei è stato un’eccellenza. Adesso, in provincia, c’è la Trost. Cosa ne pensa?

«Ha tutto per stare nel gotha mondiale: testa, strutture. E la fortuna di avere al suo fianco Gianfranco Chessa: una persona corretta, oltre che un bravo allenatore. Il mio consiglio? Che si diverta, che le piaccia la vita da atleta: le medaglie, alla fine, sono solo soddisfazioni. E’ più importante divertirsi nel percorso».

Sonego, la rivedremo presto in pista allora?

«E’ quasi tutto pronto. Lo spero. L’atletica e il giavellotto sono le mie passioni. Anche perché a stare in ufficio, dopo un po’, mi annoio (sorride, ndr)». Meglio crescere nuovi giavellottisti.

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