La tragedia al Tour 25 anni fa: Fabio Casartelli, il campione e quell’ultima curva

La morte in diretta tv del ciclista, oro olimpico del 1992. Dramma sui Pirenei, l’assurda corsa che continua, la dedica di Armstrong

Il 18 luglio 1995 non sarà mai un giorno come un altro per il ciclismo e per lo sport. Venticinque anni fa Fabio Casartelli, ciclista appena 24enne, divenuto padre da soli due mesi, morì al Tour de France, nella discesa del Portet d’Aspet, un “colletto” pirenaico corollario dei celebri Tourmalet e Aspen, finendo contro un paracarro in cemento. Da quel pomeriggio nulla nel ciclismo è più come prima. La sicurezza, anche se a fatica, è entrata prepotentemente nelle agende degli organizzatori.

Il cuore del campione olimpico di Barcellona 1992 si fermò, non invece la grande corsa che, in nome dello spettacolo a tutti i costi, continuò, proseguendo una tappa che doveva essere fermata. E le scuse del Tour per quella scelta, arrivate con anni di ritardo solo per salvarsi la coscienza, non fanno altro che accrescere la rabbia.

Casartelli, varesino d’origine, dopo la vittoria olimpica sull’olandese Dekker passò professionista nell’Ariostea di Ferretti. Poi il contratto all’americana Motorola. Talento da vendere, il passista veloce sognava una tappa al Tour, voleva fortemente dedicarla alla moglie Annalisa e al piccolo Marco di appena due mesi che Fabio, sempre in giro a correre, aveva potuto tenere poco in braccio.

Ma del bimbo parlava sempre in gruppo al Tour, come della vittoria più bella. L’attuale ct dell’Italbici Davide Cassani ricorda di aver scambiato quattro chiacchiere con Fabio proprio il giorno prima della sua morte, durante l’allenamento del giorno di riposo.

Era il Tour di Indurain, il quinto del navarro, ma anche quello di un Pantani “pre-bandana” già capace, appena due giorni prima, di mettere il primo sigillo nella Grande Boucle a Guzet Neige. Fabio contava di superare i Pirenei e, prima delle Alpi, provare a inserirsi in una fuga da lontano per portare l’orsetto di peluche, omaggio ai vincitori di tappa, al piccolino di casa. Poi la tragedia.

La Saint-Girons – Cauterets, 206 km, era la tappa regina del Tour: cinque colli. Il facile Portet d’Aspet in avvio poi il “giro della morte” con Peyresourde, Aspin e Tourmalet. Fabio parla in gruppo con Gian Matteo Fagnini, uno del treno di Cipollini. Parla della corsa, delle speranze di lasciare il segno, del figlio a casa. Salita tranquilla, poi Virenque, la maglia a pois, l’eroe di Francia, uno che poi si segnalerà per i duelli con Pantani e l’abbraccio col doping, un classico in quelle stagioni, scatta per incamerare punti.

L’andatura sale, il gruppo si allunga in discesa. Settanta, ottanta all’ora come niente fosse, il botto. Rezze, dell’Aki-Gipiemme prende larga una curva a destra, finisce nel dirupo, lo riprenderanno con le funi. Cadono altri, Perini, Musseuw e Breukink si rialzano e ripartono, Fabio no.

Le prime immagini dell’operatore sulla moto sono agghiaccianti. Il corridore è a terra in posizione fetale, immobile, sull’asfalto c’è un rivolo copioso di sangue.

Da qualche anno, grazie a Chiappucci e Bugno, anche in Italia il Tour è diventato il Tour. Gli italiani non evitano la Grande Boucle come nell’era di Saronni e Moser, ma la cercano. E i media ci sono. È l’epoca delle prime dirette integrali.

Alle 11.50, ora della caduta, Adriano De Zan con accanto Vittorio Adorni è già collegato per la Rai. Il figlio Davide pure, ma su Telemontecarlo. Tutti capiscono che non è una caduta qualsiasi. Arriva l’elicottero, la tappa prosegue.

La telecronaca è interrotta da angosciosi silenzi. Si sente la folla, il classico suono dei clacson francesi delle vetture di corsa che si fanno strada. Le notizie sono frammentarie nell’epoca ante-social dei primi cellulari. In volo il dottor Porte capisce che la situazione è disperata. Il cuore di Fabio si ferma tre volte prima dell’arrivo all’ospedale di Tarbes, per tenerlo in vita gli praticano 20 fiale di adrenalina.

La testa si gonfia, è spezzata, perché l’impatto, non attutito dal casco che i corridori non usavano all’epoca ritenendolo pesante, fastidioso e persino anti-estetico, con quel paracarro in cemento è stato devastante.

A casa di Fabio la moglie e i genitori sono in ansia. Il dottor Testa della Motorola all’ospedale capisce subito che il destino del corridore è segnato, gli dicono che il trauma facciale non lascia speranze. Fabio, dopo un’ora e mezza di massaggio cardiaco, muore proprio mentre il medico cerca di rassicurare i familiari in Italia. Non ce la fa a comunicarglielo, prende tempo. Richiama solo dieci minuti dopo.

Sono le 14, la corsa intanto va ancora avanti. Virenque ha portato via una fuga, c’è Chiappuicci, la gente è impazzita a bordo strada. Non sa. Gli organizzatori, invece, sanno eccome. Attimi interminabili di silenzio in tv. Poi il grande Adriano De Zan, in lacrime, dice: «Scusate la mia commozione, il nostro computer ha appena annunciato che Fabio Casartelli è morto».

Ancora silenzio. Poi: «Avrei preferito concludere anzitempo questa telecronaca ma nostro dovere di cronisti, di giornalisti ci impone di continuare: penso che l’amico Fabio avrebbe voluto che la telecronaca non si concludesse così».

Il figlio Davide, invece, a TMC non ce la fa, le immagini continuano, senza commento. Sul traguardo di Cauterets l’atmosfera è irreale. La carovana pubblicitaria arriva, chiassosa, è una festa come ogni giorno alla Grande Boucle.

La gente è impazzita perché sul maxi-schermo troneggia solitario Virenque che sta confezionando l’impresa sul Tourmalet. In gruppo ormai tutti sanno, Virenque no, dall’ammiraglia non gli dicono niente per non distrarlo dalla vittoria.

Al traguardo un giovane studente udinese, Giovanni Adami, ora avvocato affermato e presidente della Federbasket del Friuli Venezia Giulia, rimedia un pennarello nero e verga sul tricolore, che fino a poco prima sventolava: “Fabio vive”.

Poi prova inutilmente a farsi largo tra i Gendarmi per fermare quello scempio. Virenque arriva, trionfa, strepita. La cerimonia di premiazione è la solita, fiori, miss, musica. I corridori no. Piangono. Zulle, Rominger, Migelon, gli italiani.

Quelli che non sanno ancora vengono informati. A Tarbes intanto, la salma di Fabio viene avvolta in un drappo nero. La cronaca dell’inviato della Gazzetta dello Sport Pier Bergonzi fa accapponare la pelle. Oggi più di allora. «Fabio ha chiuso gli occhi. Per sempre. È lì disteso sotto un drappo nero, ha il volto raccolto dentro un rigido bendaggio, appena reclinato verso sinistra. Fuori c’è il caldo afoso dei Pirenei, dentro la “chapelle ardente” c’è il gelo. Non è l’aria condizionata: è che vengono i brividi solo a pensarci...».

Il giorno dopo i corridori non vogliono gareggiare, l’organizzazione li minaccia: dovete farlo. Allora percorrono la Tarbes-Pau ad andatura ciloturistica. Sull’ammiraglia della Motorola troneggia la bici di Fabio listata a lutto col numero 114. La squadra di Casartelli taglia il traguardo in parata.

Tre giorni dopo Lance Artmstrong, compagno di squadra di Fabio, prima di Limoges scappa dal gruppo e percorre gli ultimi metri della tappa braccia al cielo indicando l’amico perduto. Dimenticate per un attimo cosa combinerà poi il texano: l’immagine è stupenda.

Ora sul Porte d’Aspet c’è un monumento dedicato a Casartelli, suo figlio Marco ha 25 anni, con la mamma, romagnola d’origine, gestisce un locale a Forlì. La Fondazione Casartelli, presieduta da anni dalla gloria del basket Pierluigi Marzorati, sta facendo del bene da un ventennio.

E i corridori ora indossano il casco. È obbligatorio, ma ci volle la morte di un altro ragazzo, Andrei Kivilev, nel 2003 alla Parigi-Nizza, per convincere i professionisti che era il caso di usarlo. Anche se forse quel giorno sul Portet d’Aspet la vita a Fabio non l’avrebbe salvata nemmeno il casco.
 

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