L’album di Condò: «Il mio stadio Friuli? Una rete di Bierhoff ascoltata alla radio»

Il giornalista di Sky e La Repubblica e i ricordi di una carriera in giro per il mondo a seguire eventi sportivi: tra questi anche Udine e il “suo” Grezar 

UDINE. Da Milano a Roma, da Barcellona a Londra, ma anche da Buenos Aires a Rio de Janeiro e poi Mosca, Belgrado, Sarajevo e Pripyat, città che ai più può sembrare sconosciuta ma che dista solo tre chilometri da Chernobyl.

Quello di Paolo Condò, ex grande firma della Gazzetta dello Sport e oggi giornalista di Sky e de La Repubblica, è una sorta di viaggio dell’anima attraverso una serie di ricordi personali e professionali. L’illustre collega ha scelto trenta stadi per raccontare tra gustose chicche e aneddoti, i momenti di storia sportiva e non solo.

Condò in questi trenta stadi da lei raccontati mancano il “suo” Grezar e il Friuli. Può farci una fotografia dei due impianti della nostra regione?

«I miei primi ricordi udinesi sono legati al Moretti dove venni nei panni di tifoso a vedere i derby tra Udinese e Triestina. Al Friuli ci sono quelli professionali: non ricordo la partita ma so bene che un gol di Bierhoff lo sentii raccontare alla radio perché, complice un ingorgo stradale, arrivai allo stadio con qualche minuto di ritardo».

E a Trieste sceglie il Grezar o il Rocco?

«Il Grezar. Nel mio ultimo anno al Piccolo ebbi la fortuna di raccontare la stagione della promozione in B della Triestina di De Falco e Ascagni».

Veniamo al suo libro “Porte Aperte”. Ne abbiamo scelti dieci. Partiamo da San Siro e da quel primo derby in cui lei, giovane cronista, ebbe il compito di “coprire” la tribuna autorità.

«Intervistai Craxi e mille altri personaggi. Oggi non è più possibile. È tutto filtrato e considerato come è cambiato il mondo della comunicazione a causa dei social un po’ lo capisco. Le strade sono due: a Udine ti affidi al Messaggero Veneto, a Milano alla Gazzetta dello Sport e te ne freghi degli altri oppure tratti tutti allo stesso modo. Se io fossi un campione dello sport leggerei, mi farei un’idea e poi mi affiderei al giornale di maggiore qualità».

Stadio numero due: San Paolo di Napoli. Lei c’era in occasione della semifinale del mondiale tra Italia e Argentina.

«E ribadisco che è falso sostenere che i napoletani tifarono per l’Argentina. Sostennero l’Italia, semmai non tifarono contro l’Argentina, non ci fu ostilità. Sarebbe successa la stessa cosa a Udine se ci avesse giocato il Brasile di Zico. Siamo intossicati da questa ostilità nei confronti dell’avversario, una cosa che mi rifiuto di accettare».

Stadio numero tre: Pripyat. Siamo in Ucraina.

«Era l’impianto della zona della morte, a tre chilometri da Chernobyl. Gradinate fatiscenti e in mezzo al campo una sorta di bosco. La definirei un’esperienza estrema anche se ci andai come inviato della Gazzetta nel 2011».

Stadio numero 4: Sarajevo. E quella scelta di non indossare il giubbotto anti-proiettile.

«Allora Rcs pagava assicurazioni molto costose sulla vita quando un giornalista andava in quelle zone. Io ero con una guida, un fotografo e l’interprete. Ero l’unico munito di giubbotto, ma non me la sentii di indossarlo: sembrava che la mia vita valesse più della loro».

Stadio numero 5: Amsterdam Arena e quell’incredibile Olanda-Italia semifinale di Euro 2000 vinta dagli azzurri ai rigori.

«Una partita irripetibile. Onestamente pensavamo che l’avventura degli azzurri finisse lì e invece... Toldo che parò tutto, rigori compresi, e il cucchiaio di Totti...».

Stadio numero 6. Signal Iduna Park di Dortmund.

«Ho citato tre partite che hanno come comune denominatore Buffon. Parma, Italia e Juventus: ovviamente il ricordo più forte è la semifinale mondiale del 2006, come Italia-Brasile lo è per il Mundial del 1982. Nell’azione del gol di Grosso abbiamo tutti gli azzurri in area avversaria. Lippi dalla panchina urlò: andate tutti su e finiteli, non vedete che non stanno più in piedi?».

E siamo ad Anfield . Chi ci è stato respira un’atmosfera unica, irripetibile.

«Ma lo sapete che fino a qualche anno fa You’ll never walk alone copriva anche la musichetta della Champions? Adesso lo fanno partire prima per non fare torto a nessuno. Io ci andai la prima volta per Liverpool-Manchester United, che è la partita per eccellenza in Inghilterra».

In Sudamerica la Bombonera è un po’ quello che Anfield è in Europa?

«Sì, l’accostamento ci sta. È gente di cuore, di lotta, la passione popolare è una sorta di processo di identificazione con la propria squadra».

Chiudiamo con lo stadio di Pechimo.

«L’Olimpiade del 2008 è stata l’occasione per conoscere la Cina. Ho sempre sfruttato il mio lavoro per visitare il mondo. Le gare di ciclismo con sullo sfondo la Grande Muraglia sono state uno spettacolo. Ho visto Messi vincere l’oro olimpico, ho visto gareggiare Bolt, per non parlare dell’ostacolista cinese candidato alla vittoria e che si presenta prima della gara tutto fasciato e che poi è costretto al ritiro tra le lacrime».

Condò, lo sa che dei trenta stadi da lei citati l’Udinese ci ha giocato in sette: oltre ai tre italiani ci sono Amsterman, Dortmund, Glasgow e Liverpool.

«Beh questo vi dà la dimensione di quello che ha fatto l’Udinese nella storia recente. E oggi, dopo qualche anno, avete nuovamente una buona squadra messa in mano a un bravo tecnico. In 38 gare da capo allenatore Gotti ha messo assieme 48 punti: un risultato lusinghiero». —


 

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