Le dieci fatiche di Paolo Casarsa: «Partii da San Gottardo per sfidare il mondo e puntare alle Olimpiadi»

«Io, da San Gottardo, che arrivo alle Olimpiadi».
Sembra il titolo di un film. Ma, in questa frase, si trova tutto lo stupore che ancora prova se si volta indietro e pensa all’apice della sua carriera, specialmente se la paragona al contesto da dove è partito. È questa la molla che apre il cuore di Paolo Casarsa, udinese classe 1975, azzurro ad Atene 2004 e vice-primatista italiano della specialità più massacrante dell’atletica: il decathlon. L’ex portacolori della Forestale ora vive e lavora a Bologna, nei carabinieri, ma è ancora legato alle sue origini, al campo di Paderno, dove si preparava con papà Franco, ex giavellottista e allenatore di nuoto. «Mi piacerebbe tornare a casa», ammette mentre dedica un pensiero a Talotti.
Partiamo da qui: Alessandro sta lottando contro il cancro.
«Assieme abbiamo vissuto tante esperienze. Ho ancora i brividi a pensarci. Quando l’ho saputo, ho avuto due giorni di smarrimento. Gli ho scritto. Appena torno a casa mi piacerebbe incontrarlo».
È molto legato a Udine: come vive un friulano a Bologna?
«Mi sono trasferito nel 2011 con la famiglia. Sto bene, ma mi mancano le abitudini di prima del lockdown, come il calcetto. Ho fatto palestra, a casa. Non posso fare a meno dello sport. Appena ritirato avevo nostalgia delle doppie sedute».
Torniamo alle origini di Paolo Casarsa: vederla su un campo di atletica era naturale, giusto?
«Mio papà è stato anche professore di educazione fisica, oltre che allenatore di atletica leggera e giavellottista. Mio zio, nella stessa specialità, ha sfiorato la convocazione per i Giochi Olimpici di Mosca nel 1980. Non potevo che finire in pista. L’atletica mi piaceva e vedevo che raccoglievo più di quanto seminavo. Decisi di insistere. E nel 1994, a 19 anni, mi ritrovai campione italiano juniores di giavellotto».
Sembrava destinato a ripercorre le orme di famiglia, quando un giorno...
«Mi faceva male la spalla, non potevo lanciare, ma non volevo stare fermo. Provai le altre specialità. Nacque così l’idea delle prove multiple. Nel 1997 vinsi il titolo italiano Promesse, presi parte con la nazionale agli Europei under 23. Dopo poco partecipai al concorso per entrare in Forestale. E andò bene».
Casarsa diventò un decatleta.
«Gli anni dal 1996 al 2000 furono quelli della formazione, culminati con il titolo italiano indoor di eptathlon nel 2000. Per l’asta mi seguiva Cargnelli, per la velocità e gli ostacoli Codarini, per l’alto Gasparetto, per i lanci e l’impostazione generale mio papà. Poi, entrato in Forestale, mi aiutò molto Gianni Tozzi, decisivo per il mio miglioramento. Mi sono costruito gradualmente, così ho evitato tanti infortuni».
Nel 2001 la prima soddisfazione internazionale: il bronzo ai Giochi del Mediterraneo.
«A Tunisi, avrei potuto vincere l’argento. Ero secondo sino all’ultima gara, i 1.500, quando venni superato. Per me fu la chiave d’ingresso in un mondo nuovo. E già mi sembrava di aver fatto tantissimo, visto da dove ero partito».
Arrivarono gli anni d’oro: nel 2002 la partecipazione agli Europei, nel 2003 i mondiali, nel 2004 i Giochi Olimpici.
«Ho scoperto di essere l’unico decatleta italiano ad aver preso parte alle più grandi manifestazioni di atletica. Mi ha fatto piacere. Dal 2001 al 2004 consolidai le mie performance. Ricordo gli Europei del 2002 a Monaco, arrivai decimo. Un’esperienza incredibile, sentivo di essere entrato in una nuova dimensione. A Parigi, nel 2003, mi ritirai: mi infortunai nel salto con l’asta, per alcuni ero finito».
E invece?
«Nel 2004 disputai una grande stagione. Ero in formissima, gareggiai a Desenzano sul Garda ed ero in linea per stabilire il nuovo primato italiano: avevo migliorato tanti personali nelle singole prove. Arrivai al disco e incappai in tre nulli. Tutto da rifare. Decisi di riprovarci e andai a Maribor dopo due settimane, accelerando il recupero: due giorni di pioggia. Dissi a papà di andare a Vienna. In quell’occasione stabilii il mio primato: 8.056 punti, prima volta oltre il muro degli 8.000. Ma con un rimpianto: corsi i 1.500 con i crampi. Tempo altissimo, più di 5’, e record italiano (8.169 punti, ndr) sfumato».
Arrivarono però i Giochi Olimpici di Atene: la più grossa soddisfazione in carriera?
«Preparai al meglio i campionati italiani, la Coppa Europa e arrivai in Grecia senza energie. Non andò come volevo: 28esimo con 7.704 punti. Però ero orgoglioso di quanto fatto: io, con mio papà, partiti da San Gottardo per sfidare il mondo. Una sensazione emozionante».
Lei è stato un decatleta fortissimo nei 110 ostacoli e nel giavellotto: le sue specialità preferite?
«Sì. Le praticavo anche in gare singole. Quella odiata erano i 1.500. Pesavo 90 chili ed era l’ultima fatica dopo aver fatto nove specialità. Devastante. Però era bello che, una volta terminati, tutti noi decatleti facevamo il giro d’onore per raccogliere l’applauso del pubblico. Nel nostro mondo c’è sempre stata grande fratellanza».
Dal 2005 abbandonò il decathlon e arrivò piano piano al ritiro.
«Il quadriennio 2005-2008 doveva portarmi a Pechino, ma andai in contrasto con la Fidal e non vedevo come avrei potuto migliorare. Scelsi così di provare il bob e arrivai vicino alla convocazione per i Giochi Olimpici di Torino 2006. Fu un errore. Tornai, gareggiai nel giavellotto per i Cds con il Malignani, ma ormai non avevo più obiettivi».
Cosa si augura Paolo Casarsa?
«Prima di tutto di essere un bravo papà: mio figlio Luca ha 11 anni, gioca a calcio e suona il pianoforte. Magari si avvicinerà all’atletica. Chissà, in un futuro magari tornerò a Udine. Mi piacerebbe anche allenare, come avevo fatto con il Malignani, prima di trasferirmi a Bologna. Sicuramente mi manca casa, i miei luoghi e tante persone».
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto