Paolo Poggi, il fantat furlan compie cinquant’anni: «Udinese, che emozioni!»

Quando Paolo Poggi chiuse la sua carriera con la maglia dell’Udinese acquistò una pagina del Messaggero Veneto e scrisse così ai tifosi: «Non sono riuscito a salutarvi tutti, spero di raggiungervi con questa pagina. In questi sei anni meravigliosi mi avete fatto sentire molto più di un giocatore da applaudire e da fischiare. Non vi dimentico».
Erano passati pochi giorni da quel Udinese-Venezia 5-2 del 23 gennaio 2000 (le squadre delle città del suo cuore, proprio un segno del destino). Paolo fu salutato con un giro di campo commovente, con quello striscione che ancora oggi ricorda. «C’era scritto “Paolino, nestri fantat furlan par simpri".

Ebbene, quel fantat è rimasto tale anche se oggi compie 50 anni. «Mica me li sento addosso – dice –. Ogni tanto mi fanno sentire vecchio i miei figli, ma io mi vedo ancora un fantat». Poggi compie cinquant’anni e lo fa da d.t. del Venezia, la squadra della sua città dove tutto è cominciato e dove è ritornato perché le radici per lui sono importanti. Udine è e sempre sarà la sua seconda città, l’Udinese l’altra squadra del suo cuore dove ha vissuto i momenti più esaltanti dal punto di vista professionale.
È originario del quartiere di Sant’Elena, lo stesso dello stadio Penzo. «Io da bambino mi sono divertito da matti – racconta –, con la pineta avevamo gli spazi per giocare dalla mattina alla sera».
Papà Gianni faceva l’operaio, mamma Loredana lavorava in un negozio di alimentari. Una famiglia semplice, bella, genuina. Quattro anni dopo la nascita di Paolo arrivò Stefano, che oggi gestisce un bed and breakfast non lontano da piazza San Marco. A otto anni Paolo entra nel settore giovanile del Venezia e ci uscirà dieci anni dopo quando mister Pasinato lo farà esordire in C con la prima squadra.

«Ho vissuto l’ultima era in cui c’era il derby con il Mestre», ricorda. La fusione arrivò nel 1989 quando Paolo era già salito al piano superiore: «Capii che avrei fatto il calciatore a 16 anni quando con due anni di anticipo mi mandarono a giocare nella Primavera». Giocava centrocampista e oggi si capisce perché anche da attaccante gli veniva spontaneo correre all’indietro a dare una mano ai suoi compagni.
A spostarlo punta fu un certo Alberto Zaccheroni con il quale vinse il campionato di C. Un anno di B e poi via al Toro. «Avevo vent’anni e facevo la spola tra Venezia, Torino e Napoli dove svolgevo il servizio militare». Stagione impegnativa, ma anche ricca di soddisfazioni con la vittoria della Coppa Italia grazie ai suoi due gol nella semifinale contro la Juventus alla quale fece un altro grande sgarbo con l’Udinese nel ’98-’99 segnando lo rete dell’1-1 nello spareggio che mandò i friulani in Uefa e Madama all’Intertoto.
A Udine lo portò l’allora ds Sogliano. Paolo accettò subito perché si avvicinava a casa e perché Pozzo aveva allestito una squadra per risalire immediatamente in A. La sua presentazione fu qualcosa di più unico che raro, un pranzo a Là di Moret con i giornalisti e lui affiancato da papà Gianni e da Ferdinando Nordi, allora responsabile dei rapporti con i tifosi, in rappresentanza della società. «Una cosa di quelle che piacciono a me, del resto io sono un tipo da osteria».
Il suo primo allenatore fu Fedele, poi sostituito da Galeone: «Con il “Gale” mi sono divertito da matti, mi voleva bene come calciatore. Prima delle partite mi pestava il piede sinistro: era il suo rito scaramantico per farmi fare gol».
L’anno dopo a Udine ritroverà in panchina Zaccheroni: «Il mister aveva fatto una stagione incredibile a Cosenza, ma puntare su di lui fu una scelta coraggiosa da parte della società». In quella prima annata nessuno poteva immaginare quale storia prodigiosa sarebbe stata scritta nelle due stagioni successive. Un quinto posto prima, un terzo poi.
«Eppure – ricorda Paolo – il secondo campionato con Zac fu travagliato all’inizio. L’infortunio di Stroppa alla prima giornata, poi quello di Bierhoff che rimase fermo due mesi e mezzo».
La scintilla scoccò a Torino nella celeberrima gara con la Juve dove l’Udinese vinse 3-0 giocando in dieci per 87’. Quel giorno Paolo restò in panchina, la domenica dopo ai dieci “eroi” di Torino fu aggiunto lui. «Incrociai Zac in ascensore e mi disse: “Oggi giochi”.
E io “E tiene fuori Marcio che ha fatto due gol a Torino o Oliver?”. E lui: “Nooo, giochiamo col 3-4-3”». Fu una cavalcata che continuò anche nella stagione successiva caratterizzata dall’esordio dell’Udinese in Europa. Prima la sfida con i polacchi del Widzew Lodz, poi l’Ajax. «Io di quella notte più che la partita non scorderò mai il tragitto in pullman dall’hotel allo stadio. Eravamo bloccati in tangenziale, temevamo di arrivare in ritardo. E negli ultimi metri c’era un fiume di gente che ci accompagnava.
Quella sera al Friuli c’era davvero un popolo con noi». «Fummo eliminati – continua Paolo –, ma quella gara ci diede ulteriori consapevolezze. In alcune partite andavamo in campo sicuri di vincere. C’era la sensazione dentro di noi che avremmo preso i tre punti anche se le gare fossero durate dieci minuti. Stavamo bene assieme. Ricordo che non vedevo l’ora che cominciasse il ritiro estivo: non lo avvertivo come una punizione o una fatica, ma un divertimento».
Si creò un’alchimia straordinaria, forse irripetibile in quel gruppo e attorno a quella squadra: «In quei tempi anche i tifosi sembravamo tutti tesserati dell’Udinese». E fuori dal campo si viveva in maniera diversa da oggi: «Ognuno di noi una volta alla settimana andava a cena a casa di tifosi».
Ecco perché quando nell’estate del 2019 Paolo e il suo capitano Alessandro Calori si sono inventati una passeggiata nel centro di Udine assieme a Bierhoff, che mancava in Friuli da oltre vent’anni, è sembrato quasi che il tempo si fosse fermato. «Ma la cosa bella era che sembrava pensassero la stessa cosa anche le persone che ci fermavano per strada».
È la forza del calcio e dello sport che va oltre l’aspetto agonistico e regala emozioni inimmaginabili e che tali restano anche con il trascorrere degli anni. «Oggi che compio 50 anni – dice Paolo – mi sento una persona fortunata. Io e mia moglie Silvia compiamo entrambi 50 anni, abbiamo due figli, Tommaso e Valentina, e facciamo il lavoro che ci piace».
Lui ora da d.t. dice che può incidere di più sul lavoro con la squadra: «Trasmetto il senso di appartenenza, perché so cos’è il Venezia. Altrove questo mestiere avrei potuto farlo solamente a Udine, perché so cos’è l’Udinese per i friulani». E i friulani sanno chi è Paolo Poggi. Uno di loro. Un eterno fantat furlan.
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