«Così la comunità riprese a vivere dopo il Vajont»

Le memorie di don Matteo Pasut 50 anni dopo con prefazione di Corona: “Vai che ritorni ertano”. La ricostruzione delle coscienze dopo la strage

PORDENONE. «Vai che ritorni ertano!». Sul muro grigio di una vecchia casa di Erto, campeggia ancor oggi questa frase. Più che una provocazione, era un augurio a coloro che lasciarono tutto, all’indomani della tragedia del Vajont. Oggi, buona parte della popolazione è tornata lassù. «Vai che ritorni ertano» è anche il titolo del libro di don Matteo Pasut che, cinquant’anni dopo la catastrofe, viene dato alle stampe in seconda edizione.

Il sacerdote rimase a Erto otto anni. Arrivò «nel borgo disgraziato che si leccava le ferite», impegnò giovani e vecchi, inventò sagre, gare, tornei, propose dibattiti e conferenze, trasformò una saletta della canonica in cinema. Furono gli anni della creatività, «pareva davvero che il paese riprendesse a vivere», scrive Mauro Corona nella prefazione.

Ora, don Matteo Pasut non ha scritto, ma ha fatto un libro: lo ha composto pezzo su pezzo, raccogliendo foto e testimonianze, pescando nella memoria della gente. «Indaga, scruta, narra il non detto – si legge nella prefazione – perché non bisogna dimenticare che il 9 ottobre 1963 duemila persone entrarono nel nulla per interessi e ambizioni altrui, e lo Stato taceva».

Nessuna biografia, nessun diario: «E’ una finestra aperta – spiega l’autore – sui momenti salienti della mia vita pastorale e sociale a Erto. Ho sposato le speranze di quella gente, le ansie, i progetti».

Dopo la catastrofe ci fu una dolorosa diaspora. A Erto 140 famiglie scelsero di restare. L’allora vescovo Vittorio De Zanche nominò don Matteo Pasut, classe 1938, originario di Palse, loro parroco. «Mi chiese se avevo auto e patente. Poi disse: “Allora potrai facilmente spostarti lassù in Valcellina”. Compresi subito che occorreva frenare gli animi angustiati e astiosi nei confronti di coloro che avevano scelto di abitare nella nuova Vajont, vicino a Maniago. “Il Vajont è qui, non laggiù! Qui ci sono i nostri morti!”, diceva Giulietto Corona».

L’amarezza era tanta: «Chi faceva domanda per costruire al nuovo Vajont otteneva i contributi in 20 giorni, chi restava a Stortan doveva masticare amaro». Occorreva ricostruire le case, gli uomini, il morale. Cancellare ogni traccia di odio, ogni forma di rancore. «Riportare lo spirito del perdono reciproco e del vicendevole rispetto fu il mio impegno».

La tensione politica era alta. Lo scontro fu rovente, quando si decise di edificare le nuove scuole a Vajont e non a Erto, tanto che vi fu un presidio, giorno e notte, attorno al municipio “temporaneo” di Erto, blindato e inaccessibile anche a prefetto e questore. Il parroco invitò alla calma, ad evitare azioni di forza e di violenza. Eccole, le premesse della ricostruzione, storie di vita e di una comunità che don Matteo Pasut ricostruisce in “Vai che ritorni ertano” fino alla posa, il 26 luglio 1972, della prima pietra della nuova Erto e all’arrivo di Giovanni Paolo II e del presidente Carlo Azeglio Ciampi.

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