Il giro delle tre Venezie/ 2 Quell’inferno del Solstizio lungo il corso del Piave
Il secondo giorno di viaggio, dopo esserci portati per terre di bonifica dalla foce del Piave a quella del Sile, antico regno di domatori di cavalli, risaliamo a zig zag fra campi coltivati e terreni incolti, frequentati solo da raccoglitori d’asparago selvatico.
A Roncade prendiamo alloggio al castello, ospiti del Comune per il quale teniamo una conferenza serale sul tema dei viaggi a bassa velocità, argomento del quale siamo decisamente esperti; il gruppo in marcia si muove ad andature intorno ai cinque chilometri orari, il che l’indomani ci permette di arrivare a Silea per metà mattina, e imboccare la bella ciclopedonale lungo il Sile, qui trafficato da cigni e nidiate di anatroccoli, per entrare a Treviso quando i suoi cittadini stanno terminando la pausa-pranzo.
Fa sempre una certa impressione, arrivare a piedi in una città, anche se la sua conurbazione, in questo caso, non conta più di centodiecimila abitanti: all’occhio, ormai abituato agli spazi aperti e ai movimenti, furtivi e analfabeti, degli animali liberi, s’impongono una quantità di scritte che attirano l’attenzione (e inducono a trarre auspici), e altra cura va prestata ogni pochi passi, quando tocca traversare le strade, percorse senza sosta da un carosello frenetico d’automezzi.
Allo stesso tempo, il viaggiare per campagne ci ha disabituato alle grandi costruzioni: è bastato un giorno e mezzo fra campi e argini, e già siamo come regrediti allo stato di villici del medioevo, adusi solo a basse costruzioni e ammirati di fronte alla possanza delle mura cittadine col leone alato; l’armonioso complesso di edifici affacciato su piazza dei Signori ci appare, per un’ora o giù di lì, come il cuore d’una capitale perduta.
La cattiva stampa di cui ha fatto le spese la città in tempi recenti non sembra avere in alcun modo arrestato il suo fervore, e chi non la conosceva affatto resta meravigliato non tanto dalla sua nota operosità, quanto dalla grazia della Marca, e del suo capoluogo in particolare.
Su tanti discorsi che si sentono in giro per l’Italia sul conto del Veneto, ci si dimentica spesso di sottolineare che è una regione di grande bellezza, dove l’industria tradizionale e le nuove esperienze del terziario (come l’“incubatrice di idee” di Ca’ Tron) riescono a inserirsi sul territorio, lasciando ampio spazio a chi voglia percorrerlo con le scarpette da escursionismo, o in bicicletta, in particolare seguendo le vie d’acqua.
«Girate il mondo a piedi?» ci fa un anziano dalle parti di Maserada e, senza attendere replica, aggiunge: «Se volete vedere l’inferno, andate a Trento d’estate e a Feltre d’inverno».
Noi, per il momento, ci limitiamo a procedere verso Nord-Est, alla volta del Piave e delle Grave di Papadopoli. Nel giugno del 1918, per sprofondare all’inferno, bastava venire qui, dove oggi non si vedono che ordinati filari: l’isoletta, già proprietà di una ricca famiglia veneziana, si era trasformata in terra di nessuno, stretta fra le difese italiane, attestatesi qui dopo il disastro di Caporetto, e le prime linee austriache. L’esercito imperial-regio. , ormai col fiato corto, ammassò 66 divisioni e preparò un attacco su tutta la linea, da Asiago al Grappa, dal Montello al basso Piave.
La “battaglia del Solstizio” era la loro ultima chance di piegare l’Italia e non ritrovarsela di lì a poco seduta al tavolo dei vincitori: per ore tuonarono i grossi calibri contro paesi e postazioni – un grande cannone montato su rotaie arrivava a martellare il centro di Treviso –, quindi furono sparate migliaia di granate asfissianti sulle nostre trincee. Le Grave di Papadopoli dovevano già essere uno spettacolo dantesco, quando si procedette a gettare passerelle sul Piave per traghettare le truppe a ridosso delle linee italiane.
I “ragazzi del ‘99” si ritirarono solo un paio di chilometri, inchiodando gli attaccanti sulla riva, e salvando così l’Italia dal completo disastro; in autunno, insieme con gli alleati inglesi, ricacciarono gli austriaci di là del “fiume sacro”, per inseguirli verso Oderzo, dove aveva posto il proprio comando il feldmaresciallo Svetozar Borojevic Von Bojna. Furono le linee austriache, insomma, a cedere e, di lì a pochi giorni, Armando Diaz avrebbe stilato il Bollettino della Vittoria.
Quella seguita dall’Ottava armata italiana nell’autunno del ’18 è la nostra stessa direttrice attraverso la Sinistra Piave e, entrando nell’antica città-mercato di Opitergium, si può provare un brivido immaginando per queste strade il gallonatissimo comandante austro-ungarico, intento a discutere con il suo stato maggiore sulla migliore qualità di munizioni atte a gasare gli italiani. (2. Continua)
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