Vajont, l’Ariete ringrazia e commuove

Struggente la testimonianza di due ex militari che all’epoca della tragedia del Toc furono tra i primi soccorritori

VAJONT. «E’ stata la prima notizia che ho sentito al radiogiornale delle 6:30 del mattino: “E’ crollata una diga”, avevano esordito, non sapendo ancora che a cedere era stato il monte Toc. Mi ero appena svegliato, ma i soldati erano già sul posto ad aiutare e soccorrere». Armando Zecchinon, consigliere regionale del Fvg, ricorda così la mattina dopo il 9 ottobre 1963, giorno del disastro del Vajont, nella cerimonia che ieri si è tenuta nel comune di Vajont.

Davanti alle autorità civili e militari, il sindaco Felice Manarin ha conferito la cittadinanza onoraria ai due reggimenti della caserma Baldassarre di Maniago, il 132° artiglieria Ariete e il logistico Ariete, nelle mani dei comandanti, colonnelli Ivano Antonio Romano e Vito Zandolino, per la gratitudine e il profondo legame che si è venuto a creare da quella volta con la popolazione di Erto e Casso, di cui una parte dei discendenti vive nel più piccolo comune d’Italia.

Una cerimonia a tratti commovente, che ha riservato anche delle sorprese. Il corteo con autorità, sindaci, militari della Baldassarre e cittadini si è mosso alle 9.45 dal municipio e ha percorso la strada principale sino al monumento ai Caduti, dove un picchetto d’onore e la tromba del Silenzio hanno accompagnato la deposizione di una corona di alloro.

Struggente l’inno di Mameli intonato da una giovane cantante accompagnata dalla sola pianola. Poi, il rientro in municipio per il conferimento della cittadinanza e la consegna di riconoscimenti. La sorpresa è venuta quando il sindaco Manarin ha chiamato due testimoni dell’epoca, Pierluigi Della Capanna di Viareggio e Bonfilio Calanca di Medola (Modena), entrambi classe 1941, del 3° scaglione, che all’epoca svolgevano servizio di leva alla Baldassarre, accompagnati dal colonnello Marco Cianfanelli.

Con la voce a volte tradita dall’emozione, i due artiglieri hanno evocato e intrecciato i loro ricordi di quella terribile notte e quell’alba livida, che ha mostrato loro uno scenario da apocalisse. «Ci hanno svegliato alle 4 del mattino dicendoci di metterci la mimetica, gli scarponi e prendere pale e badili. Niente altro – inizia Calanca –. Ero alla guida di un carro armato munito di benna frontale e aprivo la colonna di mezzi.

Dopo il passo di Sant’Osvaldo ho iniziato a usarla per rimuovere il fango che man mano diventava più spesso. Tra poltiglia e macerie mi sembrava di vedere arti umani, ma mi sembrava impossibile...». E tace, incapace di proseguire.

«Eravamo circa 60 uomini, non ci avevano detto nulla di quanto accaduto – aggiunge Della Capanna –. Si pensava a un terremoto. Giungemmo sul posto, ma soltanto all’alba si cominciò a vedere qualcosa: l’onda era passata più alta di decine di metri da dove eravamo, lo si capiva dal colore diverso dell’erba. Sopra, la gente ci diceva che in quel punto c’erano case. In realtà, c’era più nulla.

C’erano i resti di un locale e da sotto il fango proveniva il suono di un clacson. Scavammo e liberammo quella macchina, dove fortunatamente non c’era nessuno...». Quell’alba, i due anziani artiglieri non se la scorderanno mai.

«Vedevamo giù la vallata del Piave, i paesini spazzati via. Che ci fossero state delle case, lo vedevamo soltanto perché erano rimasti dei pavimenti e alcune cannelle dell’acqua che spruzzavano a vuoto». Testimonianze che hanno colpito tutti. «Nella mia carriera, ho vissuto pochi momenti così toccanti», ha dichiarato il sindaco.

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