Il giro delle Tre Venezie/5 L'ombra di Rommel e la tragedia del Vajont
La Venezia Giulia è ormai un ricordo: noi Psicoatleti in marcia sulle tracce della Grande Guerra abbiamo speso il giorno di pausa per tornare in treno a Pordenone, e riprendere il cammino dalle rive del Noncello, stavolta in direzione delle montagne.
Montereale Valcellina è la porta del parco delle Dolomiti Friulane, il severo gruppo montuoso che offre ricovero ai grandi rapaci e nasconde meraviglie naturali come il Campanile della Val Montanaia, una delle formazioni più celebri delle montagne italiane.
Speravamo di arrivare nel cuore del parco passando dalle Forre del Cellina, lo spettacolare canyon che conduce a Barcis per la strada vecchia, ma una frana blocca il suggestivo itinerario, e non ci resta che affidarci all’asfalto. È un trasferimento frustrante, e arriviamo a Claut con l’umore sotto le suole delle scarpe (anzi, degli scarponi), ma qui veniamo a conoscenza di una delle storie più interessanti del viaggio, quella del calciatore Ruggero Grava. Nato in paese nel 1922, quando qui vivevano duemilacinquecento anime che oggi si sono ridotte a mille scarse, Grava emigrò bambino in Francia al seguito della famiglia, e Oltralpe si conquistò fama di valente calciatore. Dotato di fisico possente (sembra sia stato un appassionato culturista) e istinto per il gol, conquistò un titolo transalpino col Roubaix-Tourcoing alla ripresa postbellica dei campionati e, nell’estate del 1948, il suo cartellino fu acquistato dal Grande Torino, alla ricerca di un erede che prendesse il posto dell’ormai anziano Gabetto. La tragedia granata era ormai dietro l’angolo: Grava non giocò che una partita da titolare con Mazzola e compagni, quindi salì sul volo fatale per Lisbona, trovando la morte a Superga sulla via del ritorno.
L’indomani, optiamo per una giornata nella quale non vedremo mai traffico motorizzato: né auto né moto si spingono oltre il ponte degli Alpini, elevato centodue anni fa dalle Penne Nere dell’Ottavo Reggimento, e noi siamo liberi di salire in santa pace lungo le rampe sterrate della strada militare che conduce alla Forcella Clautana. Qui, all’indomani di Caporetto, reparti italiani rallentarono l’avanzata dell’Alpenkorps tedesco, guidato in questo settore da un giovane Rommel: non fu che un rimandare l’appuntamento col destino, ché alla fine i germanici passarono e, superato il Passo di Sant’Osvaldo, piombarono sulla Valle del Piave tagliando la ritirata al grosso delle nostre armate. Si dice che in un solo giorno, nei dintorni di Longarone, furono presi più di diecimila prigionieri.
Anche il nostro itinerario ci conduce, via Cimolais, al Passo: in tempi più recenti il luogo è stato celebre per il “muro della vergogna” costruito dalle autorità per impedire il ritorno degli esodati del Vajont alle loro case e, anche se oggi non resta niente dello sbarramento, si ha l’impressione di passare un confine fatale: buona parte degli abitanti che vivevano qui prima del 1963 non sono mai tornati in questa valle di dolore, e i discendenti della vecchia comunità di Erto e Casso sono dispersi senza rimedio fra i luoghi aviti, Maniago e Ponte delle Alpi.
Dopo una visita alla bottega d. i Mauro Corona, scrittore, scultiore, alpinista, è tempo di un doveroso omaggio al Museo di Erto, dove l’accanimento delle volate di mine, il progredire delle frane e il silenzio colpevole delle autorità di fronte all’allarme dei valligiani sono ricostruiti con un tale dettaglio da rendere impossibile, a cinquant’anni di distanza, attribuire quell’ecatombe alla fatalità. Qualcuno nota che ogni compagnia del Paese consacrata al viaggio lento, sia a piedi sia a pedali, farebbe bene a rendere omaggio, in questo 2013 dell’anniversario, al teatro del disastro.
Solo le tenute colorate di ragazzi e ragazze alle prese con le pareti della palestra di roccia di Casso restituiscono una nota d’allegria, poi centinaia di bandierine colorate – una per ogni bambino travolto dall’onda di piena – scortano verso la discesa su Longarone, spazzata via mezzo secolo fa e ricostruita con uno stile modernista che lascia a dir poco interdetti se, come noi, si sono viste case in sasso fino a due ore prima.
Viene voglia di correre via dal cemento, verso il verde profondissimo del Cadore, oltre Pieve e Calalzo, a respirare l’aria frizzante dell’alta valle, serraglio aereo ai piedi del massiccio delle Tre Cime. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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